Com’è possibile che Bruno Ferrante, ex vicecapo della polizia, ex prefetto di Milano, ex capo di gabinetto di tre ministri dell’Interno come Giorgio Napolitano, Rosa Russo Iervolino ed Enzo Bianco, ex candidato dell’Unione a sindaco di Milano, pupillo di Francesco Cossiga – che di lui diceva: «È stato un mio giovane collaboratore e chi ha lavorato con me può fare tutto, eccetto il papa» - si ritrovi oggi sul banco degli imputati, davanti alla Corte d’assise di Taranto, nel processo Ambiente svenduto? Come mai, a conclusione del dibattimento, l’accusa ha deciso di chiedere per lui una condanna a 17 anni di reclusione?

Un volto presentabile

Per rispondere a queste domande bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 10 luglio 2012, quando Ferrante succede al dimissionario Nicola Riva alla presidenza dell’Ilva. L’atmosfera è tesa, la magistratura sta stringendo il cerchio intorno alla gestione privata dell’ex Italsider statale, in città ci sono striscioni e manifestazioni a sostegno del pool guidato dal procuratore Franco Sebastio e dalla gip Patrizia Todisco. L’incidente probatorio non è andato bene per gli indagati ed è chiaro che qualcosa di grosso sta per succedere, così quando il 26 luglio la magistratura dispone l’arresto dei vertici dello stabilimento e il sequestro dell’area a caldo, nessuno si stupisce davvero. È questo il contesto in cui si inserisce la nomina di Ferrante, che a quel punto è in carica da quindici giorni: la proprietà aveva l’opinione pubblica contro e sentiva che stava per essere fatta fuori; chi meglio di un uomo delle istituzioni per darsi un volto presentabile e provare a superare una fase tanto difficile e incerta?

Ferrante rimane in carica come presidente e legale rappresentante di Ilva fino a maggio 2013, quando si dimette dopo il maxi-sequestro disposto dalla Todisco sui beni del Gruppo Riva per 8,1 miliardi di euro. Dieci mesi appena, ma tormentati: il 7 agosto 2012 il Tribunale del Riesame lo nomina custode giudiziario degli impianti, affiancandolo ai tre custodi-ingegneri indicati dalla gip (Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento) e quattro giorni dopo la Todisco lo estromette per incompatibilità; a fine agosto il Riesame ne ordina il reintegro, ma poi, su ricorso della procura, lo sospende di nuovo. La parola fine la scrive la Cassazione, che dà ragione ai magistrati: il conflitto di interessi c’era, perché Ferrante si sarebbe trovato a dover rispondere contemporaneamente alla proprietà come presidente del cda e alla procura come custode.

Il disegno criminoso

A seguito dell’udienza preliminare del 29 febbraio 2016, Ferrante viene rinviato a giudizio con altri 46 imputati, tra persone fisiche e società. Le gravi accuse nei suoi confronti sono contenute in cinque capi di imputazione in cui, in concorso con i Riva e i loro principali collaboratori, è accusato innanzitutto di avere «operato e non impedito con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell’aria – ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali e urbane circostanti lo stesso (…), determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione». Al disastro doloso si aggiungono la rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e l’avvelenamento di acque e di sostanze alimentari in relazione al bestiame e ai mitili che sarebbero stati contaminati dalle emissioni dell’acciaieria. Segue un lungo elenco di ulteriori condotte, tutte riconducibili all’omessa attuazione delle «necessarie misure tecniche ed interventi previsti in ordine alla gestione degli impianti e al processo produttivo» e poste in essere «anche in epoca successiva al provvedimento di sequestro preventivo di tutta l’area a caldo (…) e nonostante che il Tribunale del Riesame, con ordinanza del 07-20/08/2012, avesse disposto l’utilizzo degli impianti solo al fine di risanamento ambientale».

Gattopardi e burattini

Il senso delle accuse nei confronti di Ferrante è dato proprio da queste ultime parole: è vero che l’ex prefetto all’Ilva c’è stato poco, ma secondo l’accusa durante quel poco, invece della discontinuità, avrebbe garantito la continuità: i Riva avrebbero cambiato il presidente perché nulla cambiasse, e il nuovo presidente sarebbe stato niente più che un burattino nelle loro mani.

Nel corso della sua lunga requisitoria, il pubblico ministero Mariano Buccoliero è andato giù duro su questa linea: «Ferrante ha condiviso e partecipato alla gestione criminale del siderurgico tarantino. Il problema per lui era mantenere la produzione, non eliminare le emissioni dei veleni. Gli impianti potevano essere tenuti in vita solo ed esclusivamente per effettuare i lavori ed eliminare le emissioni diffuse, tenendolo al minimo, non per mantenere la produzione di Ilva, proseguendo tranquillamente le attività e prendendo in giro tutti: giudici, procura, custodi. Invece di preoccuparsi delle ragioni del sequestro, e quindi della salute dei lavoratori e della popolazione, si preoccupava del profitto dei Riva».

Il pm ha citato a più riprese la deposizione che Barbara Valenzano, custode giudiziario di Ilva, ha reso nel corso di 16 udienze tra esame e controesame, da ottobre a dicembre del 2018. L’ingegner Valenzano ha dichiarato che avrebbe voluto concordare con Ferrante gli interventi e i fondi da inserire in bilancio. A questi fini, lo avrebbe convocato regolarmente a ogni accesso e riunione, ma lui avrebbe sempre evitato di partecipare agli incontri: «La collaborazione di Ferrante era evanescente ed egli arrivava addirittura a contrapporsi alle disposizioni dei custodi», ha detto il pm. Al piano di interventi stimato dalla Valenzano in due miliardi di euro, Ferrante avrebbe contrapposto un piano da 146 milioni, «un piano farlocco, una presa in giro per consentire a Ilva di continuare a produrre secondo i propri utili e interessi». Un’altra presa in giro, ha detto il pm, avviene «quando addirittura il cda approva il piano dei custodi, ma non stanzia le risorse per realizzarlo (…). Se i custodi chiedevano un progetto esecutivo di copertura e impermeabilizzazione dell’area parchi, Ilva proponeva uno studio preliminare; se per spegnere l’Altoforno 5 bastava un mese, Ilva rilanciava con una proposta di spegnimento della Nippon Steel con tempi di esecuzione di anni», e così via. Secondo l’accusa, la strategia di Ferrante – cioè dei Riva – era «non fare nulla, sostenere che le misure richieste dai custodi mettevano addirittura in pericolo gli impianti, ostacolare in ogni modo possibile la realizzazione di quanto stabilito dall’autorità giudiziaria, minacciare i custodi di essere chiamati a rispondere dei danni». A provarlo, ci sarebbe la montagna di documenti depositati dall’accusa.

Chi me lo ha fatto fare?

Quando Ferrante è comparso in udienza, l’11 gennaio scorso, per rilasciare dichiarazioni spontanee, il dibattimento era agli sgoccioli. L’ex prefetto ha respinto con decisione le accuse, spiegando di essere stato chiamato perché c’era l’esigenza di «dare alla società un rappresentante che fosse interlocutore credibile delle istituzioni, espressione di lealtà e correttezza. Ricorderete che vi furono motivi di grave tensione per l’ordine pubblico, che richiedevano quindi equilibrio, moderazione nelle scelte».

Ma chi glielo ha fatto fare? Ferrante si fa la domanda e si dà la risposta: «Me lo sono chiesto anch’io perché avessi accettato quell’incarico o perché strada facendo, quando ormai era evidente che ci fossero dei gravi problemi e quindi dei rischi notevoli anche per la mia persona, non avessi deciso di abbandonare l’incarico. Non l’ho fatto per senso di responsabilità, anche di rispetto nei confronti delle istituzioni e anche per un dovere morale che io avvertivo nei confronti di una terra nella quale sono nato (Ferrante è di Lecce, ndr) e quindi pensavo di poter dare un contributo nell’obiettivo di coniugare insieme lavoro e salute. La mia azione fu sempre concordata con il governo».

La miglior difesa è l’attacco

Al di là della mozione degli affetti, con queste parole l’imputato sembra aver voluto richiamare l’attenzione dei giurati su un aspetto che nella costruzione dell’accusa manca, o non è esplicitato, cioè le ragioni che lo avrebbero portato a essere parte, per di più molto attiva, del disegno criminoso descritto nei capi di imputazione: «Provo disagio morale nel dovermi difendere da accuse di cui non comprendo il senso né la ragione».

Poi, però, Ferrante è partito a testa bassa contro un bersaglio preciso, Barbara Valenzano: «Il potere di gestione delle aree a caldo dello stabilimento spettava unicamente al custode-gestore, ingegner Valenzano, che aveva anche il potere di spesa, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Nell’esercizio di questa responsabilità i custodi – con evidente espressione del loro potere di gestione – nominarono direttore dello stabilimento l’ingegner Buffo (per cui l’accusa ha chiesto una condanna a 20 anni di reclusione, ndr). A me, in qualità di presidente, non veniva attribuita dal provvedimento del gip nessuna responsabilità. Come custode amministrativo, viceversa, io avevo la responsabilità di assicurare disponibilità finanziaria e del personale, cosa che è sempre avvenuta». Anche le accuse di mancata collaborazione e di indisponibilità agli incontri sono rispedite al mittente: «Erano gli altri che non volevano collaborare con me, perché ero visto come espressione della proprietà», e per provarlo ha depositato anche lui un mucchio di documenti.

Ferrante ha rivendicato di aver preso provvedimenti che contraddicono completamente l’accusa: il ritiro del ricorso di Ilva contro la nuova Aia, l’accettazione della stessa – inasprita - nel 2012; l’accordo con la regione per il monitoraggio costante, mai fatto prima, di tutto il perimetro dello stabilimento. Argomenti che l’avvocato Raffaele Errico, difensore di Ferrante, ha ripercorso punto per punto nella sua arringa: «Come poteva Ferrante commettere quei reati in presenza di un sequestro?», ha detto, citando in conclusione una lettera scritta da Paolo di Tarso mentre attendeva il processo che lo condannò alla decapitazione: «Bonum certamen certavi», ho combattuto la buona battaglia. La sentenza dirà chi l’avrà anche vinta.

 

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