«Il gruppo Riva nel 1995 acquista dallo stato lo stabilimento siderurgico tarantino, che è in condizioni pessime dal punto di vista ambientale, un impianto inquinante, un colabrodo. Il gruppo, in piena consapevolezza, senza procedere a sostanziali interventi di risanamento, lo sfrutta al massimo della sua capacità produttiva, proseguendo questa attività molto remunerativa, ma altamente inquinante. Tutti gli interventi che abbiamo sentito sbandierare in faccia a questa Corte d’assise, con l’aspetto ambientale non hanno nulla a che vedere: servivano solo e unicamente ad efficientare la produzione». Con queste parole il pubblico ministero Mariano Buccoliero lo scorso 1° febbraio ha aperto la sua requisitoria nel processo Ambiente svenduto, che vede alla sbarra la gestione dell’Ilva di Taranto dal 1995 al 2013.

Quando ha terminato, ha chiesto condanne per complessivi 386 anni di carcere: le più severe riguardano Fabio Riva (28 anni), Nicola Riva (25), l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso (28), l’ex responsabile relazioni esterne Girolamo Archinà (28) e i cosiddetti «fiduciari» dei Riva, un gruppo di persone che secondo l’accusa costituivano una sorta di «governo-ombra» dell’Ilva ed erano inserite in una «struttura di tipo piramidale», con al vertice la proprietà nella persona di Emilio Riva, scomparso nel 2014. Tra i reati contestati ci sono l’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, l’avvelenamento di sostanze alimentari e l’omissione dolosa di cautele in materia di sicurezza sul lavoro.

Simul stabunt, simul cadent

La struttura dell’accusa porta gli avvocati degli imputati riconducibili alla gestione Riva a organizzare la loro discussione per temi. E così l’avvocato Stefano Lojacono, difensore di Alfredo Ceriani e Giovanni Rebaioli, indicati entrambi come «fiduciari» - il primo «responsabile dell’area a caldo dello stabilimento con il compito precipuo di massimizzare la produzione», il secondo «con compiti di gestione dell’area Parchi materie prime e dell’area Impianti marittimi» – nelle quattro udienze [1], [2], [3], [4] finora assorbite dalla sua arringa, non ancora terminata, non ha nominato i suoi assistiti, se non all’esordio, ma ha trattato nei minimi particolari il tema degli investimenti ambientali.

La sua discussione è stata una confutazione radicale dell’accusa del pm, secondo il quale non c’è stata alcuna valenza ambientale in nessun investimento per tutti i 17 anni della gestione Riva, per cui il miliardo e duecento milioni di euro di interventi ambientali – che la vecchia proprietà rivendica di aver fatto appoggiandosi alla consulenza del tecnico Giancarlo Fruttuoso [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] – sono solo “carta”. In questo modo l’accusa, ha detto Lojacono, si è presa un bel rischio: se la condotta contestata va dal 1995 al 2012, anche l’elemento psicologico che la sostiene, cioè il dolo, deve essere ininterrotto. Se la difesa dimostra che in quei 17 anni ci sono comportamenti in controtendenza – per esempio investimenti ambientali effettivamente realizzati ed efficaci – la linea si spezza: è una linea “o tutto o niente”, e se la difesa dimostra che «anche solo una parte, ovviamente non minimale ma minimamente significativa, della consulenza regge, la tesi del pm non può reggere».

Per questo, dice Lojacono, il pm per sostenere l’accusa si è aggrappato alla sua teste-chiave, l’ingegnere Barbara Valenzano, custode giudiziario dell’Ilva il cui esame al dibattimento ha richiesto ben sedici udienze tra ottobre e dicembre 2018 [1], [2], [3], [4], [5], [6]. E per questo la difesa ha concentrato il fuoco su di lei, ricevendo un assist da un altro procedimento che nel frattempo si svolgeva a Milano.

Milano connection

Stefano Consonni è professore al Politecnico di Milano, esperto di tecnologie per la riduzione delle emissioni di gas serra e di processi industriali come la produzione dell’acciaio. Nel 2015, nell’ambito di un procedimento penale contro Fabio Riva per reati economici presso la Procura di Milano, i pubblici ministeri Stefano Civardi e Maurizio Clerici lo hanno incaricato di verificare l’effettiva attuazione o non attuazione di una serie di interventi presso lo stabilimento Ilva, a partire dalla documentazione fornita proprio da Barbara Valenzano a Civardi. Il custode giudiziario dell’Ilva comunicava al pm che «le tabelle in allegato 1 riportano gli interventi previsti in bilancio nel periodo di tempo osservato – anni 2002/2011 – nonché le evidenze della mancata attuazione degli stessi, supportate peraltro da verifiche in campo a suo tempo espletate». Ma alla procura, ha ricordato Consonni in tribunale, «sembrava strano che interventi di tale portata e rilevanza, iscritti a bilancio, fossero stati davvero non realizzati», così ha deciso di verificare.

Per prima cosa, i due consulenti hanno eliminato dall’elenco di 134 interventi non eseguiti indicati da Valenzano i doppioni e quelli che non prevedevano la realizzazione di opere. Dei 98 rimasti, ne hanno selezionati 19 – corrispondenti a 41 commesse per complessivi 125 milioni di euro – individuati sulla base di due criteri, la rilevanza dal punto di vista «impiantistico, ingegneristico e processistico» e quella economica: riguardano tutti «componenti cruciali che garantiscono la funzionalità del processo e la compatibilità ambientale» e comprendono quelli sulle cokerie. Attraverso la Guardia di finanza, la procura di Milano ha acquisito presso gli uffici Ilva del capoluogo lombardo un lungo elenco di documenti, relativi «a centinaia, se non migliaia, di interventi»; il file excel allegato al verbale di acquisizione della GdF, intitolato “Investimenti effettuati per ambiente e sicurezza nell’Ilva di Taranto, aggiornamento al 31.12.2011”, reca un importo complessivo di oltre un miliardo di euro. La presenza di queste fatture, ha detto Consonni, «ha ulteriormente confermato le nostre perplessità, perché ci sembrava assolutamente inverosimile che questo complesso di attività, di documenti – connessi alla asserita e messa in dubbio realizzazione di questi impianti – fosse non corrispondente a quanto effettivamente successo».

A seguito di questi accertamenti la procura di Milano non ha contestato i reati di falso in bilancio e fatturazioni false né all’Ilva né ai suoi numerosi fornitori.

Per adempiere al mandato conferitogli, Consonni ha unito al controllo documentale quello visivo sulla sussistenza fisica degli impianti, effettuando diversi sopralluoghi: «Mentre per alcune realizzazioni la verifica è stata complessa, per altre no. Il caso dell’impianto trattamento acque è paradigmatico, bastava andare a vedere l’impianto: era lì». Stesso discorso per i filtri dell’agglomerato: un impianto «alto 20/30 metri e sviluppo in orizzontale di 15/20 metri», cioè grande come un palazzo. Valenzano ha partecipato solo al primo sopralluogo: dopo «ho tentato di ricontattarla più volte e in più occasioni», ha detto Consonni, «per avere chiarimenti relativi al documento che lei stessa aveva redatto, ma non ho avuto ritorni. Questa circostanza ha complicato il lavoro da fare e allungato i tempi».

Il convitato di pietra

Il procedimento milanese riguardava le presunte responsabilità penali di Fabio Riva nel crac della holding Riva Fire, la società che controllava l’acciaieria di Taranto, una vicenda intricata per cui Nicola Riva ha patteggiato una pena a 3 anni e Adriano Riva, scomparso nel 2019, 2 anni e 6 mesi. Le stesse carte che nel processo di Taranto sono tra le prove portate dall’accusa per inchiodare gli imputati, a Milano sono state considerate inattendibili: quel processo si è concluso con l’assoluzione di Fabio Riva, sia in primo grado (5 luglio 2019, gup Lidia Castellucci) che in appello (10 dicembre 2020), perché il fatto non sussiste. Secondo la sentenza di primo grado, nella gestione dell’Ilva dal 1995 al 2012 la famiglia Riva ha investito «in materia di ambiente» oltre un miliardo di euro. Quella che per il pm Buccoliero era una «fabbrica di carta», per i giudici milanesi era una società che stava pianificando un progetto di rilancio, rimasto – quello sì – sulla carta «per l’avvenuto commissariamento ambientale di Ilva».

Ma l’oggetto del processo milanese era diverso da quello di Taranto: in quel caso l’accusa contestava una serie di operazioni societarie, finalizzate a generare un «illecito arricchimento» della famiglia Riva ai danni dell’Ilva; il cuore del processo Ambiente svenduto, invece, riguarda il presunto disastro ambientale provocato dallo stabilimento e i conseguenti «eventi di malattia e morte nella popolazione residente», al ritmo di 30 decessi all’anno.

I documenti di Valenzano sono solo una parte, per quanto importante, delle prove presentate dall’accusa. La pubblica accusa ha dedicato un’intera giornata della requisitoria a confutare la consulenza di Fruttuoso, ma non è comunque detto che la tesi difensiva (se anche solo una parte degli interventi ambientali sono stati efficaci cade l’accusa) convinca la giuria.

Inquinavate o no?

Forse pensava a questo il pubblico ministero, quando nelle prime battute della sua requisitoria ha detto: «L’Ilva ha inquinato o non ha inquinato? Questo è il punto, il senso del processo. La Corte di Assise non deve stabilire se Ilva ha fatto determinati interventi sugli impianti, se non li ha fatti, quanti ne ha fatti, come li ha fatti. La Corte deve stabilire semplicemente se l’Ilva ha inquinato oppure no. Se la risposta è positiva, tutto il resto non conta nulla, perché se io ho un impianto inquinante, anche se faccio di tutto per impedire che questo impianto inquini, e lo stesso continua ad inquinare, c’è una sola cosa da fare: bloccare l’impianto».

© Riproduzione riservata