Se c’è una percezione che la pandemia ci ha dato è che sia un po’ anche colpa nostra e che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in come va il mondo. Non sarà che «la natura si ribella» ma, quale che sia l’origine del virus, la nostra malattia ci ha rivelato quanto malato è anche il pianeta e quanto bisogno abbia di cure. Il cambiamento climatico, l’inquinamento, la riduzione della biosfera – che siano o meno opera nostra – ci riguardano e dobbiamo agire, cambiare strada. Cambiare modello, paradigmi, stili di vita. «Guasto è il mondo», aveva già osservato il buon Toni Judt (2010), per lamentare la perdita di prospettiva di cambiamento sociale delle sinistre europee. Il degrado ambientale è qui con noi e molto va fatto perché non ci soverchi. Esso esige il cambiamento.

L’illusione tecnologica

Cambiamento, nel caso della transizione ecologica, non può essere semplicemente sostituzione di una tecnologia con un’altra. È un’illusione dannosa pensare che, in fondo, basti un’auto elettrica al posto di una a benzina, un pannello solare invece di una caldaia a gas e poi, tutto come prima. Questo trionfalismo tecnologico sarà la nostra dannazione. Se era già successo che al fumo di Londra si ovviò con le stufe a gasolio, abbandonando il carbone, e poi il motore a scoppio che sostituì la macchina a vapore, è pur sempre vero che la “civiltà industriale” si è sviluppata grazie alle tecnologie. Una dopo l’altra, hanno permesso di generare energia per far funzionare macchine, passando da un combustibile all’altro, senza curarsi più di tanto né dei residui né di come quel carburante veniva ottenuto. Non è forse grazie a tutta quell’energia generata, a quel combustibile bruciato, che oggi il nostro tenore di vita è mille volte migliore di 250 anni fa? Oggi, di fronte alla debordante emissione di gas serra nell’atmosfera coltiviamo la stessa speranza: che una tecnologia «arriverà» e ci trarrà d’impaccio. Ma è un’illusione, anzi un imbroglio.

Tutto questo, peraltro, è stato possibile perché ci siamo affidati al mercato: passare da una tecnologia a un’altra è stato possibile quando diventava più profittevole, non per ragioni estetiche o sanitarie. Il mercato, la contabilità dei costi e dei ricavi, il perseguimento del profitto, non sono “morali”, né perseguono il “giusto”, ma solo l’utile. Una nave a vapore è meglio di un veliero? È più efficiente, certo, è più veloce, ha un carico maggiore. Ma tutti quei residui immessi nell’atmosfera? La tecnologica che si afferma, poi, non è necessariamente la “migliore”, anche dal punto di vista strettamente qualitativo (e la storia dell’industria è piena di esempi).

Il punto più generale è che dipende da come vengono fatti i conti in tasca alla tecnologia e chi paga cosa. Nel tempo, si sono introdotti principi giuridici che regolamentano l’inquinamento, ad esempio. Ma, com’è noto, non esiste un prezzo giusto per definire una regola perché il mercato, da solo, non lo può determinare. Il prezzo va imposto. Oggi, per l’emissione di gas serra, se ne sta discutendo, ma ci si ferma di fronte all’assenza di un governo mondiale, come se il coordinamento stretto non fosse possibile. Il problema è che, da sempre, lo sviluppo capitalistico industriale si è lasciato guidare dai mercati nella convinzione che questi avrebbero sempre trovato la soluzione giusta: un’offerta che soddisfa una domanda. Ma ben sappiamo come quella domanda possa generarsi. Più consumo genera più produzione, più reddito, più occupazione (alimentiamo il consumismo, quindi). Ma più consumo, e più produzione, generano “esternalità”: scarti, rifiuti, e una sempre maggiore estrazione di risorse. Non lo sapevamo, forse, che milioni, miliardi di sacchetti e di bottiglie di plastica si sarebbero accumulati? Certo, ma erano così comodi! Non è il mercato che trova la soluzione giusta.

Eppure, continuiamo ad affidarci al mercato. Chi può mettere oggi in discussione che ognuno di noi ha bisogno di un’auto? Se il problema è l’emissione, allora l’auto elettrica! Ma è qui, ora, che è necessario cambiare. Grande parte della popolazione mondiale vive concentrata in aree urbane, congestionate da miliardi di automobili. Come già faceva notare Ivan Illich quarant’anni fa nel suo Energy and equity, l’automobile, inventata per «far guadagnare tempo» è diventata una prigione, e passiamo più tempo in auto per spostarci di quello che dedichiamo ad ogni altra attività. Perché, allora, non pensare a un cambiamento radicale? Proibire l’uso dell’auto in città, potenziare il trasporto di merci e passeggeri su rotaia, ad esempio.

Lo sviluppo è morto

È l’illusione dello sviluppo – e che questo possa essere illimitato – che non funziona più. Se i nostri leader continuano a parlare di sviluppo – anche nel Pnrr se ne parla – si dice anche che questo deve essere sostenibile. Ma è possibile continuare a consumare risorse illimitatamente? In una strana schizofrenia, tra la nostalgia di un sano sviluppo industriale e un ipotetico quanto utopistico sviluppo sostenibile, non si vede che il problema è proprio lo sviluppo. Per quanto critici ed economisti radicali abbiano, già dagli anni Settanta, messo in guardia sui limiti dello sviluppo, questo continua ad essere il faro, nonostante il suo cammino sia sparso di rovine: mari di plastica, animali in estinzione, terre desertificate, periferie degradate, cementificazione di suolo ed erosione.

Come ricorda Wolfgang Sachs in un recente saggio, questo termine, da verbo intransitivo che era, ai tempi di Marx e Schumpeter (un fiore, una pianta si sviluppa), oggi è diventato transitivo (si fa sviluppare un paese, un’economia). Ai paesi poveri, in via di sviluppo, per anni è stato detto che finché non facevano come noi non si sarebbero sviluppati. La chiave del nostro sviluppo era stata passare da un’economia dedicata a soddisfare bisogni a una devota a istigare esigenze. Poi, i mercati si sono estesi e con essi bisogni e domande – «i Suv hanno sostituito i risciò, i telefoni cellulari hanno preso il posto delle riunioni di comunità, l’aria condizionata ha soppiantato la siesta», nelle parole di Sachs – finché sono arrivati gli avvertimenti e oggi, sviluppo è divenuto sinonimo di «limitare catastrofi»: la sopravvivenza, non il progresso, è l’obiettivo.

Quelli che l’Onu ha chiamato gli obiettivi dello «sviluppo sostenibile», dice Sachs, sono in realtà obiettivi della «sopravvivenza sostenibile». Lo sviluppo-come-crescita è insostenibile, la sua sostenibilità è un ossimoro, bisogna andare oltre lo sviluppo. Sviluppo e progresso non vanno più di pari passo: la fede nel progresso andrà sostituita dal bisogno di sopravvivenza. L’accordo di Parigi e persino il papa sono preoccupati non di come garantire lo sviluppo ma di come evitare catastrofi o guerre. Così, noi che avevamo promesso ai paesi poveri «fate come noi e anche voi conoscerete il progresso», stiamo correndo per il mondo gridando «al fuoco!», «fermatevi tutti, altrimenti non ce ne sarà per nessuno». O forse avrà ragione Jonathan Franzen (Einaudi, 2020) quando dice «ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica»? Ma, lo sappiamo, i poeti ci fanno paura, perché «aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata».

Eppure, un altro modo c’era e c’è. Non lo sviluppo come crescita ma come sviluppo sociale, come limitazione di chi ha in eccesso per dare di più a chi ha di meno e non solo beni ma infrastrutture, vivibilità, benessere. Avvitati in un modus observandi che comunque vede la crescita come indicatore di progresso fondamentale, dobbiamo accettare che deve essere la re-distribuzione il faro. Disgiungere crescita e consumo delle risorse, che implica consumo di biosfera. Questo sì, un obiettivo mai avuto prima, è oggi impellente. Un obiettivo per il quale «idee cercansi a qualunque prezzo».

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