L’iter dell’approvazione della legge europea sul cosiddetto ripristino della natura è stato raccontato come occasione di una spaccatura fra destra e sinistra e di una divisione interna al Ppe.

La narrazione della destra ha visto nella legge un estremo dell’ambientalismo ideologico e una ennesima dimostrazione del dirigismo dell’Unione. Alcuni commenti (per esempio quello di Antonio Polito sul Corriere del 12 luglio) hanno insistito sull’ambizione eccessiva di questa e altre leggi dell’Unione e sulla spaccatura che essa comporterebbe, per esempio fra gli interessi dei vecchi e dei giovani, dei lavoratori tradizionali (come agricoltori e pescatori) e di quelli non toccati dalle esigenze di ripristino della natura.

A parte il dubbio sul fatto che gli interessi si possano così nettamente separare (davvero ai vecchi non preme nulla della vita futura su questo pianeta, o agli agricoltori non importa della sostenibilità nel lungo periodo delle loro attività?), la cosa curiosa è che l’idea di ripristinare la natura è tutt’altro che estrema o ideologica. E non è neanche un’idea tanto di sinistra.

Nell’ambientalismo, infatti, per molto tempo l’idea di ripristinare ecosistemi è stata vista con sospetto. Per gli ambientalisti della prima ondata, provenienti dall’ambiente culturale americano, l’imperativo era conservare la natura intatta, non toccata dagli esseri umani.

L’immaginario di Thoreau e altri dopo di lui era dominato dall’idea di una natura selvaggia, che aveva valore in quanto tale, e che andava conservata. (In questo senso, l’ambientalismo delle origini è stato un pensiero intrinsecamente conservatore, spesso anche venato da atteggiamenti cripto-razzisti ed elitari.

Stupisce che nessuno nella destra che critica l’ambientalismo della sinistra si ricordi o riscopra queste radici.) L’ideologia della natura selvaggia è stata spazzata via da una critica intellettuale e da un cambio epocale. La critica intellettuale proveniva dal pensiero post-coloniale, che ha denunciato i presupposti etnocentrici di un atteggiamento che vedeva nel continente americano una specie di Paradiso della natura selvaggia, cancellando tutta la storia delle interazioni fra nativi americani e paesaggio e i guasti prodotti dalla colonizzazione.

Il cambio epocale si è avuto con la consapevolezza dell’Antropocene, cioè dell’epoca in cui l’impatto umano sul pianeta è diventato così pervasivo che la natura selvaggia, come oggetto e concetto, è semplicemente scomparsa dal pianeta.

Ma per molto tempo gli ambientalisti hanno criticato e sostanzialmente rifiutato la prospettiva di ripristinare gli ecosistemi. Per molti, ricreare ecosistemi distrutti dall’impatto umano significava sostanzialmente commettere un falso ideologico e nascondere le colpe degli esseri umani.

Era come sostituire un’opera d’arte rubata con una copia. Non solo la sostituzione non poteva ricreare il valore dell’opera autentica, ma essa rischiava di minimizzare la perdita e il delitto dei ladri e dei falsari. Il valore della natura, per questi ambientalisti, stava nel suo essere una creazione dell’evoluzione, irriproducibile dalla mano umana, uno sfondo intoccabile e non disponibile della nostra vita.

Cercare di riprodurre tutto questo, dopo che la dissennatezza degli esseri umani l’ha distrutto, è impossibile, e persino dannoso. Ma ormai tutto è un intrico inestricabile della mano umana e delle forze della natura.

Viviamo in una natura ibrida, fatta di paesaggi culturali e naturali, dove c’è una continuità senza salti fra le opere d’arte, l’architettura, il paesaggio agricolo e gli ecosistemi nella loro evoluzione storica.

I fenicotteri fanno il loro nido nella riserva Lipu di Priolo in Sicilia, sullo sfondo di un ex petrolchimico, che a sua volta aveva colonizzato una vecchia salina. Tutta l’Europa è così, e tutto il mondo è così. L’ecologia più recente non vede gli ecosistemi come entità in equilibrio, ma come parti di un flusso sperabilmente resiliente – il sistema Terra, o Gaia, se preferite.

L’importanza del ripristino della natura non è puntuale, ma sistematico. Non è questione di recuperare un singolo ecosistema, come se fosse un’opera d’arte da restaurare. È questione di garantire la sopravvivenza del sistema Terra, nelle condizioni migliori per la continuazione della vita umana e della vita delle molte specie che interagiscono con noi, tenendo conto delle funzioni della biodiversità, dei servizi ecosistemici, dell’impatto del cambiamento climatico. Non è un’impostazione ideologica, né estrema, né anti-umanista. Lo capirebbero anche a destra, anche fra i popolari più resistenti, se si sollevasse il velo ideologico che li rende ciechi.

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