Il carbone è scuro, sporco, inquinante e, nonostante intenzioni e dichiarazioni, continua a dare dipendenza. Ci sono economie europee che stanno facendo una fatica tremenda a eliminare dal proprio mix la fonte energetica che ha dato il via alla rivoluzione industriale e che ancora aleggia tra noi - metaforicamente e letteralmente - come un fossile di epoche passate. L’ultimo rapporto di Re:Common e Greenpeace, Cambiamento climatico assicurato, punta il dito contro i legami di Generali con alcune delle aziende più inquinanti d’Europa, la cui attività a carbone continua a essere assicurata dal gruppo triestino.

Ma al di là della questione specifica, lo studio ci ricorda un problema più ampio: l’Unione europea è come una comunità di recupero per tossicodipendenti nella quale ci sono pazienti che proprio non riescono a curare la propria dipendenza. In particolare il carbone ha un ruolo ancora troppo grande nella produzione di energia elettrica di Polonia e Repubblica Ceca, ma anche la Germania programma di uscirne con tempi molto più lenti di quelli richiesti all’Europa per rispettare l’accordo di Parigi, 2038 contro il 2030.

Polonia

La Polonia è il cuore carbonifero dell’Europa: ancora oggi la produzione elettrica derivante dalle sue centrali a carbone oscilla tra il 75 per cento e l’80 per cento del totale. «Il governo polacco sta mostrando la sua ferma intenzione di non mollare il carbone fino all'ultimo, continuando a tenerlo al centro del sistema paese», commenta Simone Ogno, che è il curatore del rapporto di Re:Common. Nello studio si legge che Generali ha mantenuto proprio Polonia e Repubblica Ceca come eccezioni alla sua policy generale di disinvestimento dal carbone, con quote peraltro minime. Un piccolo tassello di un problema enorme.

Il piano di uscita della Polonia dal carbone indica il 2040 come data, con gas fossile e nucleare come energie di transizione. Ma gli orizzonti sono fumosi e il presente è fatto di impianti come Bełchatów, la più grande e inquinante centrale a carbone d’Europa, che da sola ha le stesse emissioni di tutta la Nuova Zelanda. O come la miniera di lignite di Turów in Slesia, oggetto di una causa legale da parte della vicina Repubblica Ceca per l’inquinamento e la messa in pericolo delle acque. 

Repubblica Ceca

Paradossalmente, la Repubblica Ceca ha portato la questione della miniera polacca di Turów alla giustizia europea, ma continua a essere dipendente dalla stessa fonte di energia. Il 39 per cento del mix energetico della controllata di stato ČEZ viene dal carbone. La Repubblica Ceca sta decidendo ora i tempi del suo phase out dal carbone, probabilmente sarà il 2038. «Ma alla fine saranno i mercati e la tecnologia a sbloccare la situazione e accelerare l’uscita dal carbone come fonte energetica, che si troverà presto completamente fuori mercato», ragione Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo del think tank su clima ed energia Ecco. «Chi oggi ha il carbone con un ruolo così importante è un disperato, ha un problema in casa enorme». In particolare ce l’ha la Polonia, il carbone è stato a lungo propellente e orgoglio nazionale, le miniere davano lavoro a mezzo milione di persone, mentre oggi non sono più di 80mila. Nel frattempo la lignite è diventata una pietra al collo per il paese e anche per l’Unione europea, che farà fatica a raggiungere gli obiettivi al 2030 (-55 per cento di emissioni) senza la partecipazione polacca.

Germania

E poi c’è la contraddittoria situazione tedesca. Oggi il carbone pesa per circa il 30 per cento della produzione di energia elettrica, una percentuale sorprendente per un paese che vuole essere leader della decarbonizzazione. Il piano da 40 miliardi di euro per il phase out sarà completato solo nel 2038, i fondi serviranno in parte anche ad aiutare la transizione dei minatori dell’est, che per generazioni hanno estratto carbone e che saranno i più colpiti dall’uscita, anche se pure qui i numeri non erano più quelli di una volta. Negli anni ‘60 500mila persone lavoravano nelle miniere, oggi parliamo 20mila minatori (con 280mila lavoratori nelle rinnovabili). «La Germania è rimasta intrappolata nelle esitazioni del suo processo di liberalizzazione dell’energia e dall’integrazione tra industrie e miniere. E il problema dell’indipendenza energetica è molto più sentito che altrove». Questo mix di motivazioni ha tenuto alto il dosaggio di carbone nella bolletta tedesca e renderà così lenta e laboriosa l’uscita: «Sicuramente un piano d’uscita di questo tipo, con tempi così lunghi, stride rispetto a quelli di paesi più all’avanguardia», commenta Simone Ogno. In effetti la lignite è stata grande motivo di imbarazzo per la Germania e le ambizioni green di Angela Merkel.

Italia

L’Italia è in una posizione paradossale, ma per motivi diversi. Non siamo mai stati dipendenti dal carbone come altri paesi, il nostro piano prevede la chiusura delle centrali nel 2025, la quota si è quasi dimezzata negli ultimi anni e oggi siamo intorno al 12 per cento. Insomma, fin qui tutto bene. «Il prezzo pagato per il phase out del carbone in Italia però è una sovrarappresentazione del gas nel nostro mix energetico», ragiona Leonardi. «Il problema è che ora stiamo rischiando di bruciare tutto questo vantaggio accumulato». In Italia sono in fase di autorizzazione 15 nuove centrali termoelettriche a ciclo combinato, per un totale di 15 GW dal gas fossile in sostituzione degli 8 GW che otteniamo dal carbone e che usciranno dalla rete. È uno scenario con un fortissimo rischio di stranded asset e di aumento di costi in bolletta per i consumatori. Secondo l’ultimo rapporto del centro studi Carbon Tracker gli stranded asset ammonterebbero a 11 miliardi di euro e i costi in bolletta sarebbero più alti del 60 per cento rispetto a un portfolio equivalente in rinnovabili. In pratica, come sostituire una dipendenza con un’altra. 

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