A prima mattina del tre febbraio ad Amalfi un costone è franato sulla strada statale che porta a Positano: è stato un miracolo che non ci siano stati morti. Ma dire di danni economici assai rilevanti e di ferite al paesaggio è persino offensivo, qui è in ballo la vita degli uomini. Tanto che la statale 63 è nella lista delle strade più pericolose al mondo: dangerousroads.org. Senza perifrasi, diciamo che il territorio, e l’ambiente nell’accezione più ampia, non sono quasi mai stati al centro degli interessi dei governi repubblicani: anche se ci sono state spinte innovative e importanti (in primis la Commissione interministeriale De Marchi 1967-70) che lasciavano sperare che qualcosa si muovesse. Non è stato così.

L’Italia ha una struttura idrogeologica difficile da governare. La dorsale appenninica dalla Liguria alla Calabria per decenni è stata abbandonata. La prevenzione ha una misera parte nei bilanci pubblici. Montagne e abitati sono tutt’uno con i fiumi che li attraversano ed essi piccoli o grandi che siano, lasciati all’incuria, hanno arrecato danni ingentissimi al paese e molti morti. I problemi prioritari del prossimo decennio sono quelli di una agricoltura green e il governo delle aree urbane.

Un nuovo impegno

Cosa accadrà al nostro ambiente nell’accezione più ampia è davvero un rebus. Aria, acqua e terra sono gli elementi primari che formano l’ambiente che ci è toccato in sorte. L’Italia è un piccolo paese posto al centro del Mediterraneo con una storia millenaria certo, ma poco può fare per ridurre il riscaldamento globale del pianeta, ma assai più dovrebbe fare per rendere più vivibile la penisola e le isole che ne sono parte. Negli ultimi anni Greta Thunberg è divenuta un’icona e la sua immagine ha girato il mondo. Sarebbe ipocrita dire che l’emergenza per il clima sia al centro delle preoccupazioni dei governanti, siano essi italiani o europei. Ma l’Europa ha grandi responsabilità culturali perché essa è, per secolari tradizioni, espressione di saperi che non possono essere dimenticati. Una luce l’ha accesa Ursula von der Leyen con il progetto Nuovo Bauhaus: per rispettare l’ambiente, riprogettando le nostre società e le nostre città: è «Un nuovo impegno culturale per l’Europa che abbatte i confini tra scienza e tecnologia, arte e cultura».

Il rischio del disastro

L’emergenza climatica è un cappio al collo anche per i nostri figli: bisogna con forza dire che anche penisola e isole nel corso di pochi decenni rischiano un disastro da cui non ci sarà ritorno. Le leggi vigenti e conseguenti provvedimenti, sono solo un pannicello caldo. Ci vuole ben altro per risalire la corrente dell’emergenza per il clima. E non sarà possibile fino a quando non diventerà un obiettivo politico prioritario. Il nostro paese ha tutte le competenze per affrontare il problema, ma ai cavalli (scienziati, istituti di ricerca, organizzazioni a questi fini proposti) è necessario dare la biada perché possano galoppare. Questo non è avvenuto perché i governi che si sono succeduti, siano di destra o di centro-sinistra, hanno palesemente trascurato queste tematiche.

L’Italia è nella sua interezza una lampada di Aladino, basta sfiorarla ed escono meraviglie di ogni genere ed esse vanno protette e tutelate. Provo a fare un focus per spiegarmi: a Venezia nel 2018 l’acqua granda è salita a 156 centimetri, bastava poco perché la Serenissima affondasse. Di recente abbiamo assistito all’altalena delle dighe del Mose.

Il Vesuvio è assediato da densi abitati e discariche a cielo aperto: ma è un vulcano attivo che può domani scatenare una tempesta di fuoco e lapilli come accadde a Ercolano e Pompei nel 79 d.C. e nel 1631.

I geologi ricordano che i fiumi abbandonati a sé stessi procurano distruzione e morte e l’Appennino è una sequenza di smottamenti e frane. Questi pochi casi ricordati non sono che un piccolo tassello del problema dell’emergenza climatica: essi sono l’uno all’altro interconnessi.

Le contraddizioni

Lo storico inglese Donald Sassoon dice che oggi è impossibile fare previsioni considerato che il quadro del Covid-19 non ha precedenti se non la pandemia della spagnola del 1918-20. Ma di una cosa si dice certo: le contraddizioni del capitalismo non riguardano più la lotta di classe, ma la sensibilità ambientale. Anche se faccio fatica a condividere l’idea che la marxiana lotta di classe sia scomparsa, la crisi a cui si va incontro non regge più ai consumi crescenti malgrado le condizioni di vita della popolazione nel mondo siano migliorate. Di qui l’ansia del nostro tempo, come nel titolo al saggio di Sassoon, The Anxious Triumph: a Global History of Captalism.

Le città non possono continuare a espandersi a macchia d’olio erodendo aree preziose all’agricoltura e accrescendo il disagio urbano. Le città si dovranno dotare di servizi pubblici per ridurre lo smog, salvaguardando la salute del cittadino e rendendo più efficiente la mobilità.

Questa è una politica che ha i suoi immediati benefici e i suoi costi: ma essi non sono uno spreco, al contrario, sono un investimento produttivo indispensabile. L’Italia ha un patrimonio storico, archeologico e artistico di eccezionale valore: il mirabile paesaggio che li contiene, le splendide coste – massacrate dall’edilizia abusiva non contrastata – sono una risorsa che il turismo non è capace di utilizzare, priva com’è di un’organizzazione competitiva e adeguata alle sue potenzialità.

Il cambiamento climatico esige una politica conseguente e deve prevederne gli effetti sia nelle campagne che nelle città. Carlo Cattaneo ha scritto che le città sono le radici della nostra storia, oggi si occuperebbe di renderle “intelligenti”: le smart city possono governare telefonia, energia, mobilità e altro.

Risorse da investire

La dorsale appenninica è disseminata di borghi e abitati che si vanno da decenni lentamente spopolando. Questo dissanguamento demografico contribuisce alla rovina geomorfologia di questi contesti. Una politica saggia e ragionevole vorrebbe che si creasse un piano nazionale perché si possano creare le condizioni che questi abitati divengano centri produttivi capaci di attrarre giovani per avviare attività agricole legate al territorio e al turismo.

Le grandi risorse del Recovery plan dovrebbero essere investite nei settori di cui si è detto: data per scontata la salute, clima, agricoltura verde, governo del territorio e dell’ambiente sono priorità. L’ultimo rapporto di Legambiente di fine gennaio indica in modo esemplare e analitico l’elenco delle opere da fare e da non fare.

© Riproduzione riservata