La seconda parte del nuovo rapporto Ipcc sulla crisi climatica è stata diffusa oggi proprio mentre l'attenzione del mondo era inevitabilmente risucchiata dalla guerra in Ucraina. Può essere vista come una sfortunata coincidenza, ma è anche la misura di quanto sia difficile mettere il clima - con i suoi effetti che si dispiegano nei decenni e nei secoli - in cima a un'agenda dettata da questioni gravissime che accadono sulla scala dei giorni e delle settimane.

Il conflitto è entrato anche nel negoziato finale (online e a distanza) per scrivere le quaranta pagine di sintesi da mandare ai decisori politici. La delegata ucraina, la climatologa Svitlana Krakovska, ha sottolineato come la guerra nel suo paese e la crisi climatica abbiano in comune la dipendenza da fonti fossili, il collega russo Oleg Anisimov, veterano della scienza del clima e studioso dell'Artico, si è scusato con lei e gli ucraini per un'aggressione militare senza giustificazioni. Una finestra sul fatto che i negoziati climatici hanno bisogno di spazio diplomatico che raramente ricevono.

Vulnerabilità e adattamento

L'Ipcc è l'organismo Onu che lavora per aggregare la conoscenza consolidata sui cambiamenti climatici, pubblica rapporti ciclici che sono la mappa della nostra distanza dal precipizio, con numeri e prospettive su cui c'è il consenso assoluto della comunità scientifica. Il focus del nuovo documento è «impatto, vulnerabilità e adattamento», è la parte insieme più politica e drammatica del lavoro dell'Ipcc, perché raccoglie gli effetti presenti e futuri su persone e società, attingendo alle scienze sociali e all'economia quanto alla fisica e alla climatologia. Queste migliaia di pagine sono quello che il segretario generale dell'Onu António Guterres ha definito «atlante della sofferenza umana».

Metà della popolazione, tra 3,3 e 3,6 miliardi di persone, vive attualmente in zone estremamente vulnerabili agli effetti peggiori del cambiamento. In concreto vuol dire avere 15 volte in più di probabilità di morire per le conseguenze di ondate di calore, eventi estremi, siccità, crollo della produzione alimentare.

Non è solo un problema di terre remote: uno dei luoghi che si stanno scaldando di più è il bacino del Mediterraneo.

L'Ipcc individua quattro elementi di rischio per la prospettiva di vita sostenibile nei paesi che affacciano sul Mediterraneo: gli effetti sanitari delle ondate di calore, la siccità e l'aumento dell'aridità dei suoli, la scarsità di acqua e relativi conflitti tra gli usi (irrighiamo, beviamo o mandiamo avanti le centrali idroelettriche?), le inondazioni e l'innalzamento dei mari.

Lo studio è articolato per scenari alternativi, ci dice cosa succede in un mondo +1.5° C più caldo, cosa a +2° C o a +3° C. Al momento siamo a 1.1°C, le attuali policy energetiche (al netto delle conseguenze del conflitto ucraino) ci proiettano tra 2.3°C e 2.7° C in più rispetto all'era pre-industriale. Ipcc prova a farci visualizzare cosa significa l'alternativa tra questi scenari, settore per settore e regione per regione.

Con 2° C in più, un terzo degli abitanti dell'Europa meridionale vivrà in una condizione di scarsità cronica di acqua, quota che raddoppia a 3° C. Da 1.5° a 3° C la possibilità di morire di caldo in Europa (come successo la scorsa estate a centinaia di persone in Canada) triplica e diventa ingestibile per il sistema sanitario, come una pandemia.

La perdita di raccolti agricoli in Europa meridionale rischia di essere drammatica: in caso di sforamento di 3°C, l'habitat delle specie vegetali che conosciamo nell'Italia centrale e settentrionale si riduce fino all'80 per cento. L'innalzamento del livello del mare è irreversibile, sarà plurisecolare e quindi intergenerazionale, con gli effetti veri saranno visibili solo dal 2050, quando le persone che oggi fanno le scelte energetiche non ci saranno più, ma i bambini saranno adulti. Venezia rischia un innalzamento del mare di 120 cm tra 250 o già tra 100 anni, a seconda dello scenario climatico. 

Mitigare e adattarci

La scienza ci chiede di fare due cose: mitigare (cambiare il sistema energetico, economico e alimentare per ridurre le emissioni) e adattarci, cioè prepararci ai rischi che non possiamo più fisicamente evitare. «Qualsiasi ritardo in un'azione coordinata globale ci farà perdere la breve finestra a nostra disposizione per agire, che si sta velocemente chiudendo»; ha commentato Hans-Otto Pörtner, uno dei leader del gruppo di lavoro Ipcc.

La mitigazione è globale, ma ogni adattamento sarà locale. Per i rischi mediterranei, il rapporto propone un vasto catalogo di soluzioni, «l'adattamento climatico deve entrare nella progettazione futura di qualsiasi infrastruttura, in ogni pensiero economico e sociale del futuro», spiega Antonio Navarra, presidente del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e punto di riferimento Ipcc in Italia.

Ogni problema ha le sue contromisure, una lista dei compiti a casa che difficilmente il governo leggerà: cambiare subito le regole sull'uso e il consumo di suolo (in Italia si aspetta una legge da decenni), iniziare a costruire barriere per proteggere le zone costiere, potenziare i sistemi di monitoraggio idrico, migliorare la manutenzione degli acquedotti (che in Italia perdono oltre il 40 per cento dell'acqua), aumentare la vegetazione in città.

Tra gli autori ci sono diversi scienziati italiani, tra loro Piero Lionello, fisico e oceanologo dell'Università del Salento. In modo laconico, commenta così: «Il rapporto propone soluzioni fattibili e realistiche, che hanno un'efficacia che dipende dalla tempestività con cui sono attuate e dal livello di riscaldamento globale al quale saremo arrivati. Poi siamo in un paese democratico, il resto è una questione di rapporto tra i cittadini e le istituzioni».

Tradotto: noi il messaggio lo abbiamo spedito, voi ricordatevene quando votate, se siete cittadini, quando prendete decisioni, se siete politici. 

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