Stando ad una ricerca, recentemente pubblicata su Sustainability e realizzata da un gruppo di ricercatori dell’Háskólinn í Reykjavík e del Göteborgs Universitet e Icelandic Meteorological Office (Ime), la microplastica avrebbe raggiunto anche la più remota area dell’Islanda, ossia il cuore del ghiacciaio Vatnajokull, che è anche il più grande ghiacciaio d’Europa. È la prima volta che viene descritto il ritrovamento di microplastica sul ghiacciaio, dove i ricercatori hanno identificato microparticelle di varie dimensioni e materiali, attraverso uno studio ai microscopi ottici e spettroscopia. Fino ad oggi le microplastiche sono state oggetto di studi soprattutto nei mari, anche se erano già state ritrovate sulle Alpi italiane, sulle Ande ecuadoriane, negli iceberg alle Svalbard e in alcune aree della Groenlandia. Spiega Hlynur Stefansson, responsabile della ricerca: «È molto importante capire quale sia la distribuzione della microplastica sui ghiacciai, perché può avere effetti a breve e lungo termine sulla dinamica del ghiaccio stesso».

I risultati dello studio dicono che le particelle di microplastica sono certamente distribuite nell’atmosfera perché è da lì che devono essere arrivate. I campioni di ghiaccio che sono stati raccolti, infatti, provengono da un sito molto remoto del ghiacciaio. Si pensava che fosse incontaminato, in quanto non ha un facile accesso e dunque è praticamente impossibile che nell’area vi siano state attività umane. «Ma – continua Stefansson – non sappiamo i percorsi compiuti dalle particelle per arrivare al nostro ambiente. Sono la neve o la pioggia che le trasportano? Non lo sappiamo e dobbiamo saperne di più».

Maree ed energia. Si passa ai fatti

La Orbital Marine Power Ltd, una società scozzese ai più alti livelli nella produzione di turbine che sfruttano le maree per produrre energia elettrica, ha varato a Forth Ports, a Dundee, sulle coste orientali della Scozia, “Orbital O2”. È una turbina a forma di croce da 680 tonnellate che produrrà da 2 mw. Il varo è avvenuto nel fiume Tay, attraverso una chiatta sottomarina. La turbina è poi stata rimorchiata fino alle isole Orcadi, dove inizierà a produrre energia ed essere collegata all’European marine energy centre. Sarà così la più potente turbina di marea operativa.

Spiega Andrew Scott, amministratore delegato di Orbital O2: «La consideriamo una pietra miliare per Orbital in quanto è una dimostrazione stimolante di ciò che è possibile realizzare anche sotto le pressioni straordinarie di una pandemia». La costruzione della turbina è iniziata nella seconda metà del 2019. È stata costruita per lo più in Gran Bretagna, in quanto l’acciaio è scozzese, le àncore sono state costruite in Galles e le lame delle pale nel sud dell’Inghilterra. Ne è uscito un manufatto lungo 73 metri, con una coppia di turbine che hanno un diametro di 16 metri e che possono essere sollevate o abbassate per semplificare il trasporto, l’installazione e la manutenzione.

Il sistema può soddisfare la domanda di circa 2.000 case e ridurre le emissioni di anidride carbonica di circa 2.200 tonnellate all’anno. Secondo Ocean Energy Europe le stime sulle potenzialità dell’energia delle maree in tutto il mondo prevedono di poter avere 100 GW di capacità installata entro il 2050, che potrebbero soddisfare il 10 per cento della domanda di energia degli stati membri.

Arriva il terremoto! Fuggiamo

Nello stato di Washington, da pochi giorni ha debuttato lo “ShakeAlert-powered”, già utilizzato in California e nell’Oregon. Ci sono voluti 15 anni per poter sviluppare il sistema, ma ora chi vive in questi stati ed è in possesso di uno smarthphone e di un’apposita app avrà del tempo a disposizione – da una manciata di secondi fino a qualche minuto – per mettersi in salvo, se un terremoto di forte intensità dovesse accadere nelle vicinanze del luogo dove si trova in quel momento. Come avviene tutto ciò? Il concetto è relativamente semplice, ma molto complesso da attuare.

Quando si verifica un terremoto si sviluppano vari tipi di onde, tra le quali le sussultorie e le ondulatorie. Le prime sono le meno pericolose, ma viaggiano nei suoli e nelle rocce più velocemente delle seconde, poco più lente, ma più pericolose perché creano ondulazioni nei suoli. Immaginiamo ora che avvenga un forte terremoto in una determinata area. Appositi sistemi che rilevano le onde sussultorie non appena prodotte, inviano un segnale d’allarme ai centri abitati più vicini.

Qui sirene, cellulari e altri sistemi di allerta avvisano la popolazione dell’arrivo imminente delle onde sismiche che, pur viaggiando a velocità dell’ordine di qualche chilometro al secondo, arrivano dopo le onde radio che viaggiano alla velocità della luce. In questo modo le persone avranno un po’ di tempo, calcolato nell’ordine di alcuni secondi fino a qualche minuto in rapporto alla distanza dall’epicentro del sisma, per mettersi al riparo, magari sotto una scrivania, un tavolo o se al pian terreno per fuggire all’aperto.

Un sistema che dopo vari anni di messa a punto è ora fruibile. Ma ha un grosso difetto: costa tantissimo. Per il suo sviluppo, infatti, ci sono voluti circa 60 milioni di dollari e per mantenerlo efficiente ogni anno sono necessari 30 milioni di dollari. Nel frattempo però anche Google si è interessata all’argomento, con un sistema che è ancora agli inizi, ma che sembra promettere risultati eccellenti e costi molto inferiori. Ha annunciato che gli utenti dei telefoni con Android che vivono in Nuova Zelanda e in Grecia, se lo vorranno, potranno ricevere anche loro avvisi di terremoti molto forti che di lì a poco colpiranno dove si trovano in quel momento. I terremoti sono una minaccia ben nota in entrambi i paesi. In Nuova Zelanda, la placca del Pacifico si scontra con la placca australiana e questo provoca regolarmente grandi sismi, tra i quali la scossa del 2011 a Christchurch che causò la morte di quasi 200 persone. La Grecia è distribuita invece, su tre placche tettoniche, con terremoti violenti che si verificano quasi ogni anno. Ma nessuno dei due paesi ha implementato un sistema di allarme operativo. Ecco allora il piano di Google. Spiega Marc Stogaitis, l’ingegnere capo del progetto: «Il sistema di allarme preventivo che abbiamo messo a punto sfrutta anch’esso il fatto che la velocità della luce viaggia più velocemente attraverso i cavi in fibra ottica di Internet o via etere rispetto alle onde di un terremoto e ha il grandissimo vantaggio di essere poco costoso». Aggiunge Men-Andrin Meier, un sismologo che studia i sistemi di allarme per i terremoti all’Eth di Zurigo: «Un sistema di allarme per i terremoti che non ha bisogno di costi elevati e può fare affidamento sugli smartphone avrà un enorme potenziale a livello globale».

Il sistema messo a punto da Google si basa su una rete di smarthphone perché i dispositivi moderni sono dotati di accelerometri che monitorano il movimento, ad esempio, di un utente quando solleva o ruota il telefono. Ma questi sensori di movimento possono anche essere sfruttati per agire come sismometri rudimentali, rilevando il tremolio del suolo causato dalle onde di tipo ondulatorio prodotte dai terremoti. Ecco dunque l’idea di Google nel dare vita ad un sistema di rilevamento di sismi sugli oltre due miliardi di telefoni Android attivi. «Secondo noi è un’enorme opportunità – dice Richard Allen, sismologo all’Università della California, Berkeley – ed è stato un gioco da ragazzi sviluppare il sistema». Allen, è stato tra coloro che hanno contribuito a creare ShakeAlert. I telefoni Android rilevano già da un anno i terremoti, ma finora i risultati sono stati disponibili solo ai ricercatori. All’inizio infatti, i falsi allarmi erano tanti, ma nel giro di poco tempo la procedura è stata affinata. Ora, quando un telefono rileva un segnale di un terremoto, invia un messaggio, insieme a una posizione approssimativa, a un server centrale.

Ma mentre un sistema di allarme terremoto di ShakeAlert richiede solo quattro stazioni sismiche per rilevare un sisma, nel caso di Google ci devono essere più di 100 telefoni a far suonare l’allarme. Una volta rilevato un tale terremoto, vengono emessi avvisi sonori a schermo intero sui telefoni situati in regioni che, sulla base delle proiezioni sismiche tradizionali basate sulla fisica, dovrebbero ricevere scosse abbastanza forti da creare danni.

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