Africa, le città divorate da burroni: centinaia di migliaia di persone rischiano la casa

In diverse città africane il terreno sembra aprirsi all’improvviso, inghiottendo case, strade e attività commerciali. Sono i cosiddetti burroni urbani, enormi canaloni che si formano e si allargano in maniera rapida, spesso dopo piogge intense, e che stanno già costringendo migliaia di famiglie a lasciare le proprie abitazioni. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature, nella sola Repubblica Democratica del Congo (Rdc) tra il 2004 e il 2023 sarebbero state sfollate in media oltre 118 mila persone. E le prospettive non sono incoraggianti: senza interventi urgenti, centinaia di migliaia di africani potrebbero trovarsi senza casa nel giro di un decennio. Nella Rdc, oltre un quarto delle 770 mila persone che vivono nelle aree a rischio potrebbero essere direttamente colpite. «È un pericolo ampiamente sottovalutato e ancora poco studiato», spiega Matthias Vanmaercke, geografo dell’Università Cattolica di Lovanio e coautore della ricerca. «Si tratta di un fenomeno legato a fattori naturali e umani, ma non è affatto inevitabile». L’energia solare in Africa non è più un’illusione: ma dietro c’è Pechino Come nascono i canaloni Le voragini si sviluppano soprattutto in quartieri edificati su terreni sabbiosi privi di adeguati sistemi di drenaggio. L’acqua piovana, invece di defluire, ristagna su tetti e strade e finisce per scavare il terreno, erodendo lentamente finché si aprono canaloni che possono estendersi per centinaia di metri. Con il tempo, i burroni inghiottono intere abitazioni, infrastrutture e, in alcuni casi, provocano vittime. Analizzando immagini satellitari raccolte tra il 2021 e il 2023, il team di ricerca ha identificato 2.922 canaloni in 26 città africane, per una lunghezza complessiva di quasi 740 chilometri. Un confronto con foto aeree degli anni Cinquanta, conservate al Museo Reale dell’Africa Centrale in Belgio, ha mostrato che all’epoca se ne contavano appena 46: un chiaro segnale di quanto l’urbanizzazione incontrollata abbia accelerato il fenomeno. Kinshasa, capitale della Rdc, è una delle città più colpite: ospita da sola 868 canaloni che si estendono per oltre 220 chilometri. Nel novembre 2019, i ricercatori hanno incontrato una madre che viveva sul bordo di uno di questi burroni. Due giorni dopo, diversi suoi figli sono rimasti uccisi nel crollo improvviso di un canalone che ha travolto la casa di un parente dove si erano rifugiati. Quella notte a Kinshasa persero la vita almeno 40 persone. Apocalisse o punto di non ritorno? La soglia del riscaldamento globale di 1,5° è vicina Minaccia destinata a crescere La pressione demografica e i cambiamenti climatici non fanno che aggravare la situazione. L’Africa subsahariana vedrà quasi triplicare la propria popolazione entro il 2050 e, nello stesso periodo, le piogge potrebbero intensificarsi fino al 15 per cento in molte zone tropicali. Stabilizzare un canalone già formato può costare anche un milione di dollari, mentre prevenire il problema con sistemi di drenaggio adeguati sarebbe molto meno oneroso. Tuttavia, avverte Vanmaercke, la mancanza di risorse fa sì che spesso gli interventi arrivino tardi o risultino insufficienti. Secondo gli esperti, la priorità deve essere quella di investire in infrastrutture sostenibili, progettate con un’attenzione particolare alla gestione del suolo e delle acque. «I governi dovrebbero comprendere meglio il ruolo dell’ambiente urbano e coinvolgere esperti di idrologia e geografia», sottolinea Gina Ziervogel, docente all’università di Città del Capo. Ma anche le comunità locali devono avere voce in capitolo: «Solo ascoltando chi vive ogni giorno questi rischi possiamo individuare soluzioni efficaci». Per Ana Mijic, idrologa dell’Imperial College di Londra, serve un impegno congiunto tra governi e settore privato per finanziare sistemi di drenaggio e manutenzione di lungo periodo. Essere colpiti da un asteroide? La probabilità è bassa (ma mai zero) Dal baby boom al “baby bust” Nel 1970 una donna in Messico aveva in media sette figli. Oggi, a distanza di poco più di cinquant’anni, quel numero si è ridotto drasticamente: 2 nel 2014, appena 1,6 nel 2023. Una cifra che non basta a mantenere stabile la popolazione. Il Messico non è un caso isolato. In gran parte del mondo, i tassi di fertilità stanno calando a velocità mai vista. Secondo le stime dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme) dell’università di Washington e riprese in un lavoro pubblicato su Nature e Scientific American entro il 2050 oltre i tre quarti dei paesi saranno al di sotto della soglia di sostituzione, cioè quel livello – 2,1 figli per donna – necessario per garantire che una popolazione non si riduca. «Il declino è stato sorprendente, molto più rapido delle previsioni», osserva Jesús Fernández-Villaverde, economista all’Università della Pennsylvania. «E sta colpendo paesi in cui nessuno se lo sarebbe aspettato». Invecchiamento, disoccupazione, neet: l’incapacità di affrontare le sfide reali Un equilibrio fragile Il problema non è tanto che l’umanità smetta di fare figli – «la razza umana non si sta ripiegando su se stessa», rassicura la sociologa Barbara Katz Rothman – quanto piuttosto come i paesi si adatteranno a questo scenario. Le economie costruite sull’idea di una crescita demografica costante rischiano squilibri profondi: meno lavoratori attivi per mantenere più anziani, un rallentamento dell’innovazione e della produttività, minore influenza politica e militare, fino a un possibile freno agli investimenti nelle tecnologie verdi. «I governi devono affrontare subito la questione, perché le conseguenze saranno a lungo termine», avverte Austin Schumacher, ricercatore dell’Ihme. Molti stati hanno provato a correre ai ripari, ma i dati mostrano che anche le politiche più generose difficilmente riescono a invertire il trend. Per questo sempre più esperti suggeriscono di spostare l’attenzione: non tanto cercare di far risalire drasticamente la natalità, quanto guadagnare tempo e rafforzare la resilienza sociale ed economica. A metà del Novecento, il tasso di fertilità globale era di circa cinque figli per donna. Era l’epoca del “baby boom”, che aveva fatto temere una crescita insostenibile della popolazione mondiale. Oggi, invece, le preoccupazioni si sono ribaltate: la media è scesa a 2,2 e circa la metà dei paesi è già sotto la soglia di 2,1. Le conseguenze sono tutt’altro che astratte. Con un tasso medio di 1,7, una popolazione può ridursi della metà in poche generazioni. Secondo diverse proiezioni, la popolazione globale raggiungerà il suo picco nei prossimi decenni – tra i 30 e i 60 anni – per poi iniziare a diminuire, un evento che non accade dal Medioevo. La Cina avrebbe già toccato il massimo intorno al 2022, mentre l’India dovrebbe seguirla intorno al 2060. Gli Stati Uniti, invece, continuerebbero a crescere fino al 2080 grazie soprattutto all’immigrazione. L’unica vera eccezione è l’Africa subsahariana, entro il 2100 più della metà dei bambini del mondo nascerà lì. Dietro al calo ci sono molte cause, spesso legate a trasformazioni sociali positive: più istruzione, maggiore accesso alla contraccezione, meno gravidanze indesiderate e matrimoni precoci. Ma anche altri fattori pesano. Uno di questi sono le scelte personali: in molti paesi ricchi i giovani stringono meno relazioni e rimandano la formazione di una famiglia. Un secondo fattore sono i ruoli di genere: le donne, sempre più indipendenti, non accettano rapporti sbilanciati. In Corea del Sud è nato addirittura il movimento “Four Nos”: no a incontri, matrimonio, sesso e figli. Ci sono poi i costi e le precarietà: case care, lavori instabili e una genitorialità percepita come troppo stressante spingono a rinviare o rinunciare. E non ultimo le incertezze globali: cambiamento climatico, instabilità politica ed economica influenzano le scelte riproduttive. Secondo il sociologo Stuart Gietel-Basten, la vera crisi non è la bassa natalità in sé, ma «sistemi e istituzioni che non permettono alle persone di avere il numero di figli che vorrebbero». I giovani vorrebbero figli, ma il mondo del lavoro è ostile alla genitorialità Strategie e limiti Molti governi hanno introdotto incentivi economici – bonus alla nascita, sussidi, congedi parentali. I risultati? Modesti e spesso temporanei. Più efficaci sembrano le politiche che sostengono davvero la vita familiare: servizi per l’infanzia, congedi estesi anche ai padri, alloggi accessibili. I paesi nordici, pionieri in questo campo, hanno registrato cali più lenti. C’è poi il tema dell’immigrazione: una leva che può riequilibrare la forza lavoro, ma politicamente divisiva. Infine, l’adattamento: riformare i sistemi pensionistici, prolungare la vita lavorativa, valorizzare il contributo degli anziani e il lavoro di cura. Anche una popolazione più piccola, sottolineano i ricercatori, può portare vantaggi: meno pressione sull’ambiente e più risorse per investire sulle persone. Nessuna soluzione miracolosa, ma tante piccole mosse che sommate possono fare la differenza. «Un aumento dello 0,2 o dello 0,3 nel tasso di fertilità può sembrare poco, ma significa guadagnare tempo per adattarsi», spiega Fernández-Villaverde. L’idea chiave è questa: il calo della natalità non è necessariamente un disastro, a patto che le società sappiano reinventarsi.