Le barriere coralline collassano, è un altro punto di non ritorno

Un recente innalzamento delle temperature marine ha scatenato uno sbiancamento massivo e la morte diffusa dei coralli tropicali, segnando –secondo gli scienziati – il primo punto di svolta climatico già oltrepassato per uno degli ecosistemi più fragili del pianeta. Il fenomeno non è più isolato: oggi oltre l’80 per cento delle barriere coralline mondiali risulta colpito dallo stress termico. «Siamo arrivati al punto di non ritorno», avverte Melanie McField, del programma Healthy Reefs for Healthy People collegato allo Smithsonian: il collasso delle barriere coralline non è più solo un rischio ecologico, ma una minaccia diretta per la salute e la sicurezza delle popolazioni costiere. Realtàoillusionecosmica?Lasfidaapertadeibuchineri Le barriere coralline d’acque calde ospitano fino a un terzo della biodiversità marina conosciuta e forniscono servizi fondamentali – cibo, protezione dalle onde, posti di lavoro – a quasi un miliardo di persone nel mondo. Il loro valore economico, stimato in beni e servizi, può raggiungere i 9,9 trilioni di dollari all’anno. Eppure i coralli sono estremamente sensibili anche a piccoli scostamenti nella temperatura dell’acqua. Quando l’acqua supera certe soglie, i coralli espellono le alghe simbiotiche che vivono nei loro tessuti – processo che li rende “bianchi” e li priva della principale fonte di nutrimento. Se lo stress termico persiste, la mortalità può diventare massiva. Il recente sbiancamento è stato definito «di un ordine di grandezza diverso» rispetto agli episodi osservati finora. Il nuovo Global Tipping Points Report 2025, redatto da 160 esperti e coordinato dall’Università di Exeter in collaborazione con il Wwf e altre istituzioni, identifica le barriere coralline tropicali come il primo sistema terrestre a essere precipitato oltre una soglia irreversibile. Realtà o illusione cosmica? La sfida aperta dei buchi neri Il termometro climatico Nel rapporto, si stima che la soglia termica critica per i coralli tropicali venga superata quando l’aumento delle temperature globali raggiunge 1,2 °C rispetto ai livelli preindustriali, con un limite massimo tollerabile stimato in 1,5 °C. I dati del 2024 indicano che le temperature medie globali hanno superato i +1,5 °C rispetto all’era preindustriale per la prima volta nella storia documentata – condizione che avrebbe spinto i coralli oltre i loro limiti di resistenza secondo Tim Lenton, coordinatore del rapporto. «Abbiamo preso un campione del mondo a +1,5 °C e ne abbiamo già visto le conseguenze», ha dichiarato Lenton. «Molti reef rischiano di passare a uno stato dominato dalle alghe». Gli autori del rapporto evidenziano che solo un rapido ritorno a un riscaldamento medio globale entro +1,2 °C – o quanto più vicino possibile –potrebbe salvare le strutture coralline ancora attive. Terry Hughes, esperto della James Cook University, lancia un ammonimento severo: «Non esistono più barriere coralline incontaminate da fenomeni di sbiancamento in nessuna parte del mondo». Ma aggiunge: «La nostra azione nel prossimo decennio farà la differenza, se le emissioni globali verranno drasticamente ridotte». Il rapporto non si limita a fotografare il disastro: introduce anche il concetto di punti di svolta positivi – meccanismi che, una volta attivati, possono amplificare da sé la transizione verso sistemi più sostenibili. Negli ultimi anni, ad esempio, l’adozione globale dell’energia solare e l’espansione dei veicoli elettrici sono già avviate verso questa dinamica virtuosa. In vista del vertice Cop30 in Brasile, gli scienziati chiedono un’accelerazione immediata dei tagli alle emissioni in ogni settore dell’economia. Ilbucodell’ozonosistarichiudendo Fossili misteriosi in Gabon Nel laboratorio dell’Università di Poitiers, in Francia, il geochimico Abderrazak El Albani studia da tempo una piccola lastra di scisto nero. Lo scisto nero è una roccia sedimentaria fine e laminata, formata da fango, argilla e materia organica depositati in ambienti poveri di ossigeno, come fondali marini, lagune stagnanti o bacini chiusi. Il colore nero o grigio scuro deriva proprio dall’alto contenuto di carbonio organico e di minerali ricchi di ferro o zolfo. Al suo interno brilla un frammento dorato di pirite: per un occhio inesperto potrebbe sembrare solo “oro degli stolti”, ma per lui rappresenta forse qualcosa di ben più straordinario — il fossile di una forma di vita complessa vissuta oltre due miliardi di anni fa. Se così fosse, si tratterebbe dei più antichi organismi multicellulari mai scoperti. Tutto è cominciato nel 2008, quando El Albani esplorava le colline di scisto nero vicino a Franceville, in Gabon. Le rocce di quella regione – il cosiddetto bacino di Franceville – risalgono a circa 2,14 miliardi di anni fa, un periodo in cui la Terra aveva da poco cominciato a respirare ossigeno. Nel corso delle ricerche, El Albani notò strane strutture lucenti, simili a piccoli dischi o filamenti, composte di pirite. Tornato in Francia, ne portò via oltre 200 chilogrammi per studiarle più a fondo. Due anni dopo, nel 2010, lui e il suo team pubblicarono un articolo che fece scalpore su Nature: sostenevano che quelle forme potessero essere fossili di organismi multicellulari complessi, vissuti 1,5 miliardi di anni prima di quanto si fosse mai immaginato. L’energia solare può alimentare tutto il mondo? Quanta superficie serve e l’alternativa nucleare Una vita complessa più antica Se l’ipotesi fosse corretta, significherebbe che la vita complessa – organismi composti da cellule specializzate – è emersa più volte nella storia della Terra, e non una sola, come finora si pensava. La scoperta ribalterebbe l’intera cronologia evolutiva: la comparsa dei primi animali pluricellulari, finora datata a circa 600 milioni di anni fa, potrebbe avere avuto un’“anteprima” molto più remota. Non tutti, però, sono convinti. Molti paleontologi sostengono che i campioni di Franceville non siano fossili, ma concrezioni minerali formatesi spontaneamente, ingannando l’occhio dei ricercatori. «Le strutture piritizzate possono formarsi senza alcun intervento biologico» osserva il paleontologo Shuhai Xiao del Virginia Tech. «In certi casi, sembrano fossili, ma non lo sono». El Albani, tuttavia, non si è arreso. Negli anni successivi ha analizzato centinaia di campioni, affiancato da colleghi internazionali. Alcune analisi chimiche hanno rivelato impronte isotopiche compatibili con attività biologica. «Questi risultati non bastano da soli» ammette El Albani, «ma mostrano che qualcosa di biologico potrebbe essere avvenuto». Il “miliardo noioso” Tra la nascita dei primi eucarioti, circa due miliardi di anni fa, e la grande esplosione di vita del Cambriano, 540 milioni di anni fa, si estende un enorme vuoto evolutivo, spesso definito il “miliardo noioso”. Gli organismi sembrano rimanere semplici, quasi statici, per un periodo lunghissimo. Ma forse quella apparente calma è solo il riflesso della nostra ignoranza: «Potremmo semplicemente non aver cercato nei posti giusti», osserva la paleontologa Susannah Porter dell’Università della California, Santa Barbara. Nuove scoperte in Cina, dove sono stati rinvenuti fossili di eucarioti multicellulari di 1,6 miliardi di anni fa, suggeriscono che la complessità biologica abbia radici più profonde di quanto si pensasse. Anche esperimenti di laboratorio mostrano che organismi unicellulari possono evolvere comportamenti multicellulari in pochi anni. Tutto questo rende meno assurda l’idea di El Albani. Il dibattito resta acceso. Per i critici, mancano ancora prove dirette che i campioni gabonesi siano davvero fossili. Per i sostenitori, il dubbio è il segno di un campo di ricerca ancora in piena evoluzione. «Non si tratta di fede, ma di dati», ribatte El Albani. «Se pensano che siano concrezioni minerali, devono dimostrarlo», spiega su Scientific American. Verso Marte e oltre Il lavoro del team ha anche implicazioni che vanno oltre la Terra. Le stesse tecniche chimiche usate per distinguere strutture biologiche da minerali vengono oggi studiate per analizzare campioni extraterrestri. «Capire come riconoscere la vita nelle rocce più antiche del nostro pianeta ci aiuterà a cercarla su altri mondi», spiega El Albani. Ogni anno il ricercatore torna in Gabon, dove tutto è cominciato, per continuare a scavare negli scisti neri del bacino di Franceville. Con lui, studenti e colleghi setacciano le pietre alla ricerca di nuove forme, nuovi indizi, nuove domande. «Ogni volta che trovo una di quelle scintille d’oro» confessa, «penso che lì dentro ci sia forse la memoria di una vita dimenticata».