Ci vuole del tempo per comprendere qual è il vero impatto dei grandi incendi sul clima e purtroppo i risultati sono peggiori rispetto alle proiezioni iniziali. Recentemente in un lavoro apparso su Nature si riporta quanta anidride carbonica hanno immesso nell’atmosfera gli incendi che hanno colpito l’Australia sudorientale alla fine del 2019 e all’inizio del 2020: 715 milioni di tonnellate, più del doppio delle emissioni precedentemente stimate dai dati satellitari. Spiega David Bowman, un ecologista dell’università della Tasmania a Hobart: «È una quantità incredibile, così elevata che gli scienziati potrebbero dover ripensare all’impatto sul clima globale che provocano gli incendi di grandi dimensioni, che anche quest’anno 2021 hanno imperversato non solo di nuovo su tutta l’Australia, ma negli Stati Uniti occidentali e in Siberia. Il fuoco è davvero un grosso problema ora». Di fronte a questo dato e alla situazione in atto, la domanda chiave è: si riprenderanno queste foreste?

Spiega Cristina Santín, ricercatrice di incendi boschivi presso il Consiglio nazionale delle ricerche spagnolo: «Gli incendi sono stati a lungo considerati eventi a zero emissioni di carbonio, perché le emissioni che rilasciano vengono recuperate quando la vegetazione ricresce, ma un aumento della frequenza e dell’intensità degli incendi australiani e di altre parti del pianeta potrebbero far sì che gli ecosistemi non si riprendono mai completamente, perché non ce la fanno con i tempi. Se questi incendi minacciano il recupero dell’ecosistema, allora dobbiamo davvero preoccuparci». Per fortuna la Terra ci viene in aiuto. Una seconda ricerca apparsa su Nature dà un minimo di speranza. Lo studio ha scoperto che le emissioni generate dagli incendi boschivi sono state quasi compensate da gigantesche fioriture di fitoplancton nell’oceano Antartico, registrate durante l’estate del 2019-20.

«I risultati dimostrano come gli incendi boschivi possono influenzare direttamente i processi oceanici», afferma il coautore dello studio Richard Matear, uno scienziato del clima dell’Organizzazione di ricerca scientifica e industriale del Commonwealth del governo australiano. Matear ha scoperto che, durante gli incendi, vasti pennacchi di fumo neri, ricchi di sostanze nutritive, sono finiti a migliaia di chilometri di distanza nell’oceano.

In pochi giorni, questi aerosol avevano infuso nelle acque così tanto ferro, necessario alla vita del fitoplancton, che ha assorbito carbonio equivalente fino al 95 per cento delle emissioni degli incendi. «L’oceano sembra aver fatto un incredibile gioco di prestigio, come fosse un mago», afferma Bowman. «Tuttavia è necessario capire dove finisce alla fine del ciclo quel carbonio che viene assorbito dal fitoplancton». In altre parole, una volta che il fitoplancton muore che fine fa il carbonio che ha assorbito? La risposta è d’obbligo, ma non ancora ben capita.

Il Gambia

Secondo una nuova analisi che potrebbe essere definita desolante, su quanto si sta facendo a livello planetario per ridurre il riscaldamento globale, risulta che 35 paesi tra i più grandi emettitori di carbonio del mondo non sono all’altezza degli impegni presi, ad eccezione di una sola nazione africana. «Si stima che con le azioni attuali nel 2030 le emissioni globali saranno all’incirca al livello odierno e si emetterà dunque il doppio di quanto richiesto per il limite di 1,5° C rispetto al periodo pre-industriale», si legge nel rapporto. Anche le politiche per fornire sostegno finanziario per sviluppare progetti di energia rinnovabile nei paesi in via di sviluppo sono del tutto insufficienti.

Questo studio arriva appena un mese dopo dal momento in cui più di 230 scienziati hanno emesso il loro più duro avvertimento – un “codice rosso per l’umanità” – nel loro sesto rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) e in vista del prossimo round di colloqui sul clima delle Nazioni unite che si terrà a novembre, che per alcuni leader mondiali è l’ultima possibilità per mobilitare l’azione politica. Dei 36 paesi valutati, con l’Ue presa nel suo insieme, solo una nazione ha ricevuto una valutazione climatica complessiva compatibile con la stabilizzazione del riscaldamento globale intorno a 1,5° C, quel paese è il Gambia, una nazione dell’Africa occidentale che sembra stia prendendo seri provvedimenti per aumentare il suo uso di energia rinnovabile.

Altri sette paesi – Costa Rica, Kenya, Marocco, Etiopia, Nepal, Nigeria e Regno Unito – non sono molto indietro, il che significa che potrebbero arrivare sulla buona strada «con moderati miglioramenti». L’Unione europea, nel suo insieme, ha un voto considerato “insufficiente”, così come Usa, Svizzera, Giappone e altri. La Cina, così come l’India, la Nuova Zelanda, il Canada, l’Australia e altri paesi sono altamente insufficienti. Gravemente insufficienti sono la Russia, l’Arabia Saudita e altri.

Clima in sei città italiane

Uno studio realizzato dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) sottolinea ancora una volta quanto stia cambiando il clima e come alcune delle principali città italiane non siano pronte a fronteggiare quel che succederà nel prossimo futuro. Le cause principali sono da ricercarsi nell’urbanizzazione e cementificazione selvaggia e contemporaneamente nella mancanza di aree verdi. La ricerca si è concentrata su sei città italiane: Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna e Venezia, le quali negli ultimi trent’anni hanno registrato un aumento significativo della loro temperatura media e che, stando ad alcune proiezioni, potrebbero essere destinate a subire effetti rovinosi se le temperature dovessero realmente crescere fino a 2°C in più rispetto al periodo preindustriale entro il 2050.

Ciò causerebbe un aumento della mortalità delle persone, ondate di siccità fino a precipitazioni estreme con tutte le conseguenze del caso. A Milano, dove negli ultimi due anni la temperatura è aumentata di quasi un grado, preoccupa la crescita del numero di “notti tropicali”, ossia notti durante le quali la temperatura non scende sotto i 20°C. Stando alle proiezioni vi sarà un ulteriore aumento della temperatura media (+2°C entro il 2100), ma anche un maggior numero di ondate di calore che potrebbero arrivare anche ad oltre 30 giorni di calore in più rispetto a quelli che già si sperimentano attualmente.

A Torino, dove si registra un +0,9°C rispetto alla temperatura media dell’ultimo trentennio, lo scenario previsto per i prossimi anni ipotizza che vi saranno fino a 28 giorni di calore intenso in più rispetto ad oggi. A Venezia le temperature medie sono aumentate di 1,1°C, cosa che ha portato a un incremento delle notti tropicali, ben 40 in più.

L’analisi sottolinea poi come negli ultimi 150 anni, il livello dell’acqua della laguna è salito di ben 30 centimetri, mentre i fenomeni di acqua alta sono sempre più frequenti, circa 40 episodi solo negli ultimi dieci anni. Anche per Bologna è previsto un aumento delle temperature di 2°C nei prossimi anni, con un conseguente aumento della mortalità che crescerà del 3 per cento.

L’intera area sub-urbana, inoltre, è considerata a rischio per precipitazioni estreme e alluvioni, con fenomeni di allagamento sempre più frequenti ed intensi. A Roma le temperature sono già aumentate addirittura di oltre 3,5°C, con 133 giorni in più di caldo intenso rispetto a dieci anni fa. Ciò ha fatto sì che la mortalità delle persone con più di 55 anni a causa del caldo è cresciuta del 22 per cento rispetto ad una ventina di anni fa.

Anche Napoli ha visto un aumento di quasi un grado delle temperature medie rispetto a trent’anni fa. Oltre ad un aumento delle ondate di calore si ipotizza che piogge intense inizieranno a verificarsi sempre più spesso: questo fenomeno sarà reso ancora più grave dalle elevate aree cementificate – circa il 63 per cento della superficie della città – il che rende il suolo impermeabile e impedisce un corretto assorbimento dell’acqua.

Grotte

Il sistema di grotte più lungo al mondo conosciuto finora, quello del Mammoth Cave National Park nel Kentucky, ha da poco stabilito un nuovo record dopo che speleologi e topografi hanno trascorso ore a mappare altri 13 chilometri di passaggi e cunicoli. Al momento dunque i “corridoi” misurano ben 676 chilometri di lunghezza e questo stando al National Park Service (Nps).

È circa la distanza tra Torino e Roma lungo l’autostrada. La mappatura del sistema di grotte è stata un’impresa enorme, svolta dai volontari della Cave Research Foundation (Crf), un gruppo non profit con sede nel Kentucky e da altri gruppi. Spiega Karen Willmes, responsabile delle operazioni del Crf: «Molti dei viaggi in grotta sono lunghi e faticosi, e comportano arrampicate, esposizione verticale, strisciamenti, passaggi stretti con acqua e fango». La Mammoth Cave è entrata nel libro dei record nel 1969, quando si conoscevano passaggi per 105 chilometri. Quindi, durante un’indagine nel settembre 1972, gli speleologi del Crf scoprirono una connessione tra il sistema di Mammoth Cave e il sistema di Flint Ridge, portando la distanza totale nota a 232 chilometri. Da allora, ulteriori indagini del Crf hanno aggiunto chilometri su chilometri nel corso degli anni.

In realtà il sistema di Mammoth Cave è un enorme labirinto che si è formato a causa del fenomeno del carsismo in una vasta area calcarea. E ogni anno, più di 2 milioni di persone visitano il sistema di grotte, che ospita 130 specie di fauna selvatica, tra cui 14 specie di troglobi, o animali che vivono esclusivamente nelle grotte, come il pesce delle caverne meridionale senza occhi (Typhlichthys subterraneus ). Il Mammoth Cave National Park è uno dei soli 13 siti naturali degli Stati Uniti riconosciuti come patrimonio dell’umanità dalle Nazioni unite, che elogia le grotte per i loro lunghi passaggi con enormi camere, pozzi verticali, stalagmiti e stalattiti, splendide forme di bellissimi fiori di gesso, delicati aghi di gesso e rari fiori di mirabilite, un minerale solfato di sodio.

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