Questa settimana parliamo del Vera C. Rubin Observatory, sulle Ande cilene, pronto a rivoluzionare l’astronomia con un’azione tanto semplice quanto radicale: osservare il cielo, notte dopo notte, per vedere cosa cambia. E poi gli effetti della crisi climatica sul Grande Nord
Per chi studia l’universo, l’astrofisica non è solo una scienza: è una narrazione delle origini. Ogni stella, galassia, ammasso, ogni frammento di materia oscura o scintilla di energia oscura racconta qualcosa sulla struttura e sull’evoluzione del tutto. Ma, come ricordava l’astronoma Vera Rubin, troppo spesso trascuriamo un fatto fondamentale: la nostra ignoranza è ancora sterminata. «Nessuno ci ha garantito che avremmo vissuto nell’epoca in cui i misteri del cosmo sarebbero stati svelati», scriveva Rubin. Eppure, a breve, l’osservatorio che porta il suo nome ci avvicinerà come mai prima a quel traguardo.
Il Vera C. Rubin Observatory, incastonato sulle Ande cilene, è pronto a rivoluzionare l’astronomia con un’azione tanto semplice quanto radicale: osservare il cielo, notte dopo notte, per vedere cosa cambia. Il telescopio del Rubin Observatory è già assemblato e funzionale, anche se non ancora pienamente operativo: mancano alcune settimane di test, necessari per calibrare il cuore del sistema, una fotocamera senza precedenti.
Con un diametro dell’obiettivo di oltre 1,5 metri, è la più grande mai costruita per l’astronomia. I tecnici stanno verificando l’effetto della gravità sui tre specchi principali, monitorando il modo in cui anche minimi cedimenti possano alterare la precisione nella cattura dei fotoni, alcuni dei quali viaggiano da miliardi di anni luce per raggiungere i nostri strumenti.
Il telescopio, che pesa 350 tonnellate, dovrà muoversi con rapidità e precisione: in pochi secondi deve ruotare per inquadrare un’area ben definita, stabilizzarsi e scattare due esposizioni da 15 secondi prima di passare a una nuova porzione di cielo. Il tutto, per ogni notte, per dieci anni. L’obiettivo: ripassare ogni tre notti sull’intero cielo visibile dall’emisfero australe, aggiornando continuamente la mappa del cosmo.
Un motore di scoperta
Dietro le quinte, un’infrastruttura informatica colossale elaborerà 20 terabyte di dati ogni notte – una quantità circa 350 volte superiore a quella raccolta quotidianamente dal telescopio spaziale James Webb. Un sistema automatizzato analizzerà ogni variazione da una mappa all’altra, generando fino a 10 milioni di allerte per notte su potenziali nuovi oggetti celesti o eventi improvvisi.
Il Rubin si prepara a spaziare su tutto lo spettro dell’astronomia ottica: da asteroidi vicini alla Terra a nane brune, dalla dinamica delle galassie all’enigmatica materia oscura. Il suo campo visivo sarà ineguagliabile: dove Hubble riesce a coprire l’uno percento del disco lunare, il Rubin osserverà un’area 45 volte più estesa della luna piena in un singolo scatto.
Il Rubin Observatory nasce come evoluzione di un progetto con uno scopo più limitato: era inizialmente noto come LSST (Large Synoptic Survey Telescope) e avrebbe dovuto concentrarsi principalmente sulla materia oscura. Un campo di studio a cui Vera Rubin ha dato un contributo fondamentale negli anni Settanta, osservando il movimento anomalo delle stelle nelle galassie a spirale. Secondo la fisica classica, le stelle ai margini di una galassia dovrebbero orbitare più lentamente rispetto a quelle vicino al centro. Eppure Rubin e il collega Kent Ford scoprirono che le velocità erano identiche in ogni regione osservata. La sola spiegazione plausibile era l’esistenza di una grande quantità di materia invisibile: la materia oscura.
Una sostanza mai osservata direttamente, ma la cui influenza è evidente nella struttura dell’universo. Col tempo, gli astronomi si resero conto che un telescopio come l’LSST poteva fare molto di più: tracciare ogni cosa, visibile e invisibile, e diventare una piattaforma scientifica al servizio dell’intera comunità.
Ingegneria estrema
Rendere tutto ciò possibile ha richiesto ingegneria ai limiti. Il telescopio ha una configurazione ottica unica, con tre specchi – primario, secondario e terziario – che lavorano in sinergia per ridurre al minimo le distorsioni. Il primario e il terziario condividono lo stesso substrato di vetro.
La luce compie un tragitto articolato, rimbalzando tra gli specchi prima di raggiungere il cuore del sistema: la fotocamera. Quest’ultima è un cubo d’acciaio compatto da 10 metri per lato, dotata di sei filtri che coprono dallo spettro ultravioletto a quello infrarosso.
Ma la fotocamera, per quanto potente, deve anche essere capita: gli astronomi dovranno distinguere tra le distorsioni causate dalla materia oscura e quelle introdotte dall’ottica stessa o dall’atmosfera terrestre.
Portare la fotocamera sulla cima del Cerro Pachón, a 2.600 metri di altitudine, ha comportato un’odissea logistica. A maggio 2024, è stata caricata su un Boeing 747 da San Francisco al Cile. Da lì, un viaggio in camion di 12 ore l’ha condotta alla base della montagna, superando anche uno sciopero dei trasportatori.
Una volta giunta in cima, Lopez e il suo team l’hanno ispezionata pezzo per pezzo. Nel frattempo, gli ingegneri hanno iniziato a testare una versione più piccola della fotocamera – la cosiddetta commissioning camera – operativa dall’ottobre 2024. A differenza degli osservatori classici, dove si propone un obiettivo e si osserva solo quel punto, il Rubin si comporterà come una gigantesca cinepresa del cielo. Un time-lapse di dieci anni del cosmo, che mostrerà variazioni, transiti e fenomeni in tempo reale, fungendo da guida per futuri studi.
Oltre a offrire nuove prospettive sulla formazione delle galassie, permetterà di individuare centinaia di flussi stellari attorno alla Via Lattea, tracciandone forma e dinamica. Questi dati aiuteranno a definire meglio le proprietà della materia oscura, suggerendo se sia composta da particelle fredde, calde o capaci di interagire con sé stesse Rubin aveva ragione: non era scritto che saremmo stati la generazione destinata a decifrare i segreti del cosmo. Ma abbiamo costruito un occhio capace di provarci.
L’equilibrio del Grande Nord
Nel cuore dell’inverno artico del 2021, una scena senza precedenti ha sancito l'inizio di una nuova era per il commercio globale: una petroliera russa, la Christophe de Margerie, ha solcato le acque ghiacciate del Mare di Bering per attraccare in un remoto porto della Siberia orientale. Non era mai accaduto prima che una nave riuscisse a compiere una traversata simile durante i mesi più gelidi.
Ma stavolta il colpevole era chiaro: il riscaldamento globale. La nave, intitolata all’ex ceo della Total, è diventata il simbolo tangibile di un cambiamento epocale. Secondo numerosi studi, l’Artico si sta riscaldando a un ritmo quattro volte superiore rispetto alla media globale.
Un’accelerazione che sta aprendo nuove rotte commerciali, in particolare lungo la Rotta del Mare del Nord: una scorciatoia tra Asia ed Europa di oltre 9.000 chilometri. Se un tempo l’Artico era una barriera invalicabile per gran parte dell’anno, oggi la stagione della navigazione si allunga e il traffico marittimo cresce. Ma ogni progresso ha il suo prezzo.
Con l’aumento delle navi, aumentano anche l’inquinamento atmosferico, l’emissione di gas serra e il rischio di disastri ambientali. Il paradosso è inquietante: proprio mentre la fusione del ghiaccio marino rende più accessibili le rotte artiche, le emissioni delle navi che vi transitano accelerano ulteriormente il riscaldamento, provocando la fusione di altro ghiaccio. Uno dei principali colpevoli è il “carbonio nero”, una particella prodotta dalla combustione incompleta di carburanti fossili, in particolare dal pesantissimo olio combustibile usato da molte navi.
Il carbonio nero non solo inquina l’aria, ma ha un effetto devastante quando si deposita sulla superficie del ghiaccio, riducendone la capacità di riflettere i raggi solari e favorendo così un ulteriore riscaldamento. «Il nero sul bianco è un acceleratore del disastro», spiega la scienziata polare Sammie Buzzard, della Northumbria University. «Il ghiaccio assorbe più calore e si fonde più velocemente». Tra il 2015 e il 2019, l’uso di olio combustibile pesante nell’Artico è aumentato del 75 per cento. In Antartide, invece, è vietato da oltre un decennio.
Le statistiche raccontano una trasformazione rapida. Tra il 2013 e il 2023, la presenza di navi nell’Artico è cresciuta costantemente: pescherecci, navi cargo, crociere e portarinfuse (imbarcazioni progettate specificamente per il trasporto di carichi solidi sfusi non imballati, come il carbone, il grano, i minerali etc) solcano queste acque in numero sempre maggiore. Solo tra il 2013 e il 2019, il traffico marittimo è aumentato del 25 per cento, mentre la distanza complessiva percorsa dalle imbarcazioni è più che raddoppiata (+111 per cento).
Nel frattempo, la finestra di tempo in cui è possibile navigare in sicurezza in acque libere dai ghiacci è aumentata del 35 per cento tra il 1979 e il 2018. Entro il 2030, secondo le proiezioni climatiche, potrebbe diventare possibile attraversare rotte artiche senza scorte rompighiaccio nei mesi estivi. Ma il futuro non è tutto in discesa: lastre di ghiaccio pluriennale, staccandosi dalle calotte polari, possono bloccare alcuni tratti chiave del Passaggio a Nord-Ovest, rendendoli ancora più insidiosi e imprevedibili.
L’Artico non è solo una rotta commerciale: è un pilastro dell’equilibrio climatico globale. Il ghiaccio riflette l’energia solare, contribuisce a raffreddare il pianeta e regola gli scambi termici tra oceano e atmosfera. La sua scomparsa ha effetti che si riverberano ovunque, dalla circolazione oceanica alla temperatura globale. E poi c’è la biodiversità. Gli orsi polari, diventati simbolo della crisi climatica, dipendono dai ghiacci per cacciare e sopravvivere.
Più del 96 per cento del loro habitat critico si trova proprio su superfici gelate. Il traffico crescente rappresenta una minaccia anche per le balene e altri cetacei, disturbati dal rumore sottomarino delle navi, che interferisce con la loro capacità di comunicare, migrare e nutrirsi.
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