I voli aerei inquinano più di quanto pensiamo: i calcolatori di anidride carbonica sbagliano

Quando prenotiamo un volo e inseriamo i dettagli in un calcolatore online per stimare la nostra “impronta di carbonio”, il risultato sembra spesso rassicurante: qualche centinaio di chili di Co₂, a volte una tonnellata per le tratte più lunghe. Numeri che danno l’illusione di poter misurare con precisione il nostro impatto ambientale, magari per poi compensarlo piantando alberi o acquistando crediti di carbonio. Ma secondo una nuova ricerca, queste stime sono quasi sempre troppo ottimistiche. In realtà, le emissioni legate a un singolo volo potrebbero essere molto più alte di quanto i calcolatori ci lasciano credere. La Terra si sta oscurando e così si scalda più velocemente Da aggiungere Il problema nasce dal fatto che la maggior parte di questi strumenti considera soltanto il carburante bruciato durante il volo, trascurando una lunga serie di fattori che contribuiscono al riscaldamento globale. Non viene quasi mai tenuto conto, per esempio, dell’impatto della produzione del carburante, dei servizi a bordo, della gestione aeroportuale o della manutenzione degli aeromobili. Ma soprattutto, vengono ignorati gli effetti “non-Co₂” dell’aviazione: ossidi di azoto, vapore acqueo rilasciato ad alta quota, e le famigerate scie di condensazione che contribuiscono alla formazione di cirri artificiali, capaci di trattenere calore nell’atmosfera. Un recente studio pubblicato su Nature Communications Earth & Environment ha messo ordine in questo caos, proponendo un modello più completo per calcolare le emissioni effettive dei voli. Il risultato è sorprendente: quando si includono anche gli effetti non-Co₂, l’impatto climatico può raddoppiare o addirittura triplicare rispetto alle stime dei calcolatori tradizionali. Prendiamo, ad esempio, un volo intercontinentale da Singapore a Zurigo. Secondo i calcolatori più diffusi, un passeggero in prima classe genererebbe alcune tonnellate di Co₂. Ma se si considerano tutti i fattori aggiuntivi – dal tipo di aeromobile alle deviazioni di rotta, dal peso dei bagagli agli effetti delle scie persistenti – le emissioni reali risultano molto più elevate. Viaggiare in business o in prima classe, inoltre, peggiora ulteriormente il bilancio: più spazio per passeggero significa meno efficienza e, quindi, più emissioni individuali. Va detto che stando a vari “calcolatori” ai valori di Co₂ che compaiono quando si compera un biglietto aereo bisognerebbe aggiungere un valore compreso tra il 90 e il 200 per cento a seconda di vari fattori che dipendono fortemente dall’altitudine, dalla latitudine, dalla presenza/assenza di contrails persistenti e dalla meteorologia al momento del volo: non tutti i voli producono le stesse scie o lo stesso ozono troposferico. Vi è poi il tipo di aereo, il carico merci/passeggeri, la classe di viaggio (più spazio = più emissioni per passeggero), le deviazioni di rotta e la durata del volo cambiano molto il risultato. Questa discrepanza non è soltanto un dettaglio tecnico. Se i calcolatori di carbonio sottostimano l’impatto dei voli, anche le strategie di compensazione rischiano di essere inefficaci. Aziende e privati che credono di “neutralizzare” il proprio impatto rischiano di coprire solo una frazione del danno reale. È un errore che si propaga: governi, compagnie aeree e programmi di sostenibilità finiscono per basarsi su dati troppo benevoli, alimentando la convinzione che il problema sia sotto controllo. Il nostro pianeta ha la febbre alta: numeri per curare la crisi climatica Maggiore consapevolezza La questione è tanto più urgente perché l’aviazione commerciale è tra i settori più difficili da decarbonizzare. Nonostante i progressi tecnologici –carburanti sostenibili, aerei più efficienti, progetti di elettrificazione a corto raggio – le emissioni complessive del settore continuano a crescere. Secondo l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao), il traffico aereo potrebbe raddoppiare entro il 2040, rendendo ancora più importante avere strumenti di misurazione realistici. La soluzione, secondo gli autori dello studio, non è rinunciare del tutto a volare (anche se ridurre i voli superflui resta la misura più efficace), ma aggiornare i metodi di calcolo e la consapevolezza collettiva. Servono strumenti più trasparenti e completi, capaci di includere tutte le componenti del ciclo di vita del viaggio aereo e di rappresentare l’impatto reale sul clima. In altre parole, la prossima volta che inseriamo i nostri dati in un calcolatore di Co₂ per “bilanciare” un volo, dovremmo ricordarci che il numero che vediamo sullo schermo probabilmente racconta solo metà della storia. Realtà o illusione cosmica? La sfida aperta dei buchi neri La complicata storia dell’Homo Una nuova pietra miliare nella comprensione dell’evoluzione umana è stata raggiunta nel momento in cui per la seconda volta gli scienziati sono riusciti a ricostruire un genoma completo di un esemplare del gruppo umano arcaico noto come Denisoviani. Il dna è stato estratto da un unico dente – un molare – datato all’incirca 200mila anni fa, rinvenuto nella celebre Grotta di Denisova, in Siberia. I Denisoviani sono tra gli esseri umani antichi più enigmatici fino a oggi; vennero per la prima volta alla luce della scienza grazie al dna stesso, senza avere un repertorio fossile abbondante. Nel 2010, infatti, un frammento di osso di un dito, anch’esso recuperato nella grotta, rivelò la presenza di un genoma nettamente diverso sia da quello degli esseri umani moderni sia da quello dei Neanderthal eurasiatici. Questa nuova ricostruzione genomica – guidata dal team del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania – rappresenta una fase molto più antica della storia dei Denisoviani: mentre il primo genoma di alta qualità disponibile era infatti, attribuito a un individuo vissuto tra circa 55mila e 75mila anni fa, il nuovo, risalendo a circa 200mila anni fa, ci apre una finestra su una popolazione precedente, più “primitiva”. Basandosi sul numero di mutazioni accumulate nel dna e sul confronto con altri genomi umani arcaici, gli autori stimano che l’individuo fosse vissuto circa 205.000 anni fa; i sedimenti della grotta in cui è stato trovato il dente sono datati tra 170.000 e 200.000 anni fa. Tutto ciò suggerisce che stiamo guardando a una tappa iniziale nella lunga avventura evolutiva dei Denisoviani. Uno degli aspetti più rilevanti emersi dallo studio è la presenza di almeno tre distinte popolazioni di Denisoviani. La più antica include l’individuo oggetto del dente, seguita da un gruppo che parecchie migliaia di anni più tardi subentra nella stessa grotta. Il terzo gruppo, non rappresentato direttamente nella cavità siberiana, è l’unico che ha lasciato tracce genetiche nei moderni esseri umani non africani, in particolar modo nelle popolazioni del Sud-Est asiatico e dell’Oceania. Questa conclusione si colloca in ricerche precedenti che rilevavano che l’ascendenza denisoviana negli uomini moderni non deriva dalla stessa popolazione della Grotta di Denisova ma da un ramo affine e ancora poco conosciuto. Il buco dell’ozono si sta richiudendo, la Terra guarisce lentamente Una specie sconosciuta Il nuovo genoma ha rivelato inoltre che i Denisoviani si incrociarono ripetutamente con i Neanderthal: nel dna dell’individuo si trovano tracce di una popolazione di Neanderthal vissuta tra 7.000 e 13.000 anni prima rispetto al Denisoviano antico. Queste tracce non corrispondono a nessun genoma di Neanderthal finora sequenziato, il che suggerisce che uno dei partner dell’introgressione fosse un gruppo di Neanderthal finora ignoto. Inoltre, il dna reca l’impronta di un incrocio con un altro gruppo umano arcaico ancora non identificato che si era evoluto indipendentemente dai Denisoviani e dagli esseri umani moderni per centinaia di migliaia di anni. Si è ipotizzato che tale popolazione potrebbe essere rappresentata da Homo erectus, ipotesi al momento non verificabile. Questo ritratto complesso conferma che il nostro albero genealogico non è una linea diritta, ma piuttosto un tessuto intricato di ramificazioni, mescolamenti e popolamenti multipli. In realtà, attualmente, la classificazione del genere Homo suggerisce l’esistenza di poco più di una dozzina di specie riconosciute o proposte, oltre alla nostra specie attuale, Homo sapiens. Infine, è importante segnalare che questi risultati offrono nuovi indizi sulla distribuzione geografica e temporale dei Denisoviani: benché siano stati scoperti originariamente nella Siberia meridionale, la presenza del loro dna in popolazioni moderne dell’Oceania e del Sud-Est asiatico suggerisce che occupassero un’ampia area dell’Asia, forse anche in contesti climatici ed ecologici differenti rispetto a quelli siberiani. In conclusione, questa nuova sequenza genomica non solo offre uno sguardo su una fase antica della storia dei Denisoviani, ma ribadisce che l’evoluzione umana non è un cammino monotono bensì un mosaico fatto di incontri, ibridazioni e scomparse. Ogni nuovo genoma aggiunge un tassello importante e rende più chiara la grandezza del mistero ancora da decifrare.