Quando arriverà il 2030 e si scoprirà che i livelli saranno stati abbassati solo in parte, i detrattori del Green Deal e della transizione ecologica bolleranno l’intera trafila delle Net Zero Cities come un fallimento, uno spreco di soldi. Passerà in secondo piano il vero valore dell’iniziativa e del programma Horizon Europe: il finanziamento della ricerca e dell’innovazione
Rendere un centinaio di città europee a zero emissioni nette entro il 2030, cioè in meno di cinque anni da oggi. È questa l’ambizione della Eu mission for climate-neutral and smart cities, un’iniziativa lanciata dal programma europeo Horizon Europe (quello che finanzia la ricerca e l’innovazione) e raccolta nell’aprile 2022 da 112 aree urbane, nove delle quali italiane.
Le amministrazioni locali hanno elaborato dettagliati piani d’azione, con tanto di progetti e budget. Una volta scrutinati e approvati dall’Europa, viene stipulato un Climate City Contract, un contratto (senza valore legale) che impegna le città a inventarsi un percorso di decarbonizzazione accelerato che funga da modello per tutte le altre, che dovranno arrivare alla neutralità climatica entro il 2050.
Lo scorso 7 maggio a Vilnius, in Lituania, altre 39 città europee hanno ricevuto il riconoscimento della Eu mission label, che certifica la bontà dei progetti presentati e che consente di accedere a una piattaforma dove cercare finanziamenti da capitali privati per realizzarli. Ad oggi sono 92 quelle che hanno ottenuto l’etichetta della missione europea per le Net Zero Cities. Tra le italiane l’ultima a riceverla è stata Padova. Nel 2024 l’avevano già ottenuta Firenze e Parma a marzo; Bologna, Bergamo, Milano, Prato e Torino a ottobre. Presto dovrebbe arrivare anche a Roma.
Le aree urbane
Sebbene le città occupino solo il 4% della superficie europea, sono responsabili di circa i due terzi dei consumi energetici del continente e di quasi i tre quarti delle sue emissioni complessive. La transizione ecologica passa necessariamente per una riorganizzazione delle aree urbane: le emissioni cittadine di anidride carbonica provengono in larghissima parte (70-80%) dal gas delle caldaie che riscalda gli edifici e dal settore dei trasporti (20-25%), ancora retto da diesel e benzina. Al terzo posto c’è la gestione e lo smaltimento dei rifiuti (5%).
Tagliare le emissioni che causano il riscaldamento globale nel caso delle città equivale al contempo ad abbattere l’inquinamento: la combustione di gas e benzina infatti genera anche una serie di altre sostanze di scarto, come gli ossidi di azoto, che sono alla basse della formazione delle poveri sottili, che secondo i dati dell’agenzia europea per l’ambiente ogni anno in Europa sono responsabili della morte di 240.000 persone, per malattie respiratorie o cardiovascolari.
Avendo dimensione locale, il Climate City Contract permette di ritagliare la decarbonizzazione su misura delle esigenze di ciascuna comunità. Tra le azioni previste da Padova ad esempio c’è l’ampliamento della rete tramviaria e ciclabile, l’attivazione di uno sportello energia per assistere i cittadini nelle pratiche di riqualificazione energetica degli edifici, la creazione di reti di teleriscaldamento, la nascita di comunità energetiche che mirano ad auto prodursi l’energia da fonti rinnovabili, con la partecipazione di cittadini e attori sociali quali comune, università, provincia, camera di commercio e fiera.
Gli edifici a basso consumo energetico sono più di semplici tetti con pannelli fotovoltaici e pompe di calore elettriche: sono strutture intelligenti, digitalizzate e monitorate da sensori. Firenze intende progettare una smart city control room che gestisca i dati della città, del traffico, dell’inquinamento e più in generale del territorio per assistere le scelte dell’amministrazione.
L’innovazione non è solo tecnologica, ma anche sociale. Prato punta su una strategia di forestazione urbana e su una circolarità dell’economia, in coordinamento con le aziende del suo distretto tessile, mentre Bologna ha istituito un’assemblea cittadina per il clima, che estrae a sorte 100 abitanti che avanzano proposte al consiglio comunale.
Non solo pubblico
Naturalmente le amministrazioni locali non possono farsi carico da sole di tutto il lavoro: devono essere piuttosto dei facilitatori di dialogo e progettualità tra diverse parti sociali. Il contratto climatico di Padova ad esempio è stato già sottoscritto da 36 stakeholder: tra questi ci sono utility dell’energia, associazioni di categoria, banche, aziende dei trasporti e gruppi industriali che operano sul territorio. Saranno questi attori, insieme agli amministratori locali, a doversi ingegnare per trovare i fondi per gli investimenti necessari alla realizzazione di una città sostenibile e smart.
Inizialmente il bando europeo aveva messo a disposizione 360 milioni di euro, che divisi per il centinaio di città selezionate fa in media 3,6 milioni a testa. Non basteranno neanche i 2 miliardi, in forma di prestiti, messi sul piatto dalla Banca Europea per gli Investimenti per chi ha ottenuto la Eu mission label. Per realizzare i suoi obiettivi al 2030, la sola città di Padova ha messo in preventivo quasi 6 miliardi di euro. Bologna arriva fino a 11 miliardi.
Se si vanno a vedere più in dettaglio quali sono questi obiettivi si vede però che circa la metà della spesa stimata da Padova (3,3 miliardi) viene destinata alla riqualificazione energetica degli edifici: ma non di tutti, solo del 20% degli edifici.
Sebbene le città prevedono di compensare la parte di emissioni che non riusciranno ad abbattere entro fine decennio con la piantumazione di nuove aree verdi, è difficile pensare che un’impresa così complessa qual è l’azzeramento delle emissioni cittadine venga ideata, costruita e portata a termine in meno di cinque anni. Vorrebbe dire che in questo brevissimo lasso di tempo quasi tutte le abitazioni di Milano o Roma passerebbero dalla caldaia a gas alla pompa di calore elettrica, che quasi tutti i proprietari di auto andrebbero a rifornirsi alle colonnine elettriche anziché dai benzinai.
Come la nave di Teseo
Nonostante l’enfasi che viene messa sul 2030, non risiede nel rispetto della tempistica (stretta, impossibile) il successo o il fallimento della missione europea per le città sostenibili. Su questo probabilmente è stato fatto un grossolano errore di comunicazione, che rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang: quando arriverà il 2030 e si scoprirà che le città avranno abbassato solo una parte (speriamo il più consistente possibile) delle proprie emissioni, i detrattori del Green Deal e della transizione ecologica bolleranno l’intera trafila delle Net Zero Cities come un fallimento, uno spreco di soldi.
Passerà completamente in secondo piano il vero valore dell’iniziativa che, sembra un dettaglio secondario ma invece è quello più importante, fa parte del programma Horizon Europe, ovvero quello che finanza la ricerca e l’innovazione. I 100 Climate City Contract sono in realtà dei laboratori urbani, dei centri di sperimentazione in tempo reale della transizione ecologica sul territorio. Come la nave di Teseo che navigando sostituisce i propri pezzi fino a costruire un’altra nave (o è la stessa?), le Net Zero Cities sono dei progetti di ricerca e sviluppo sulla decarbonizzazione, nel pieno della decarbonizzazione.
L’eredità che produrranno, che durerà ben oltre il 2030, sarà nei legami che sapranno instaurare tra parti sociali, tra competenze: l’amministrazione, che si rivolge ai ricercatori universitari, che calcolano il modo più efficiente (massima riduzione di consumi ed emissioni per minima spesa) per riqualificare gli edifici di un quartiere, e che indirizzano le aziende edili sugli interventi da compiere. È anche questo tipo di programmazione che è mancata al Superbonus. Oltre a fungere da acceleratore della transizione, la sperimentazione del Climate City Contract permetterà di non ripetere gli errori del passato.
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