Quasi tutta la pesca è insostenibile e l’unica via d’uscita è smettere di mangiare pesce. Queste sono le somme che tira Seaspiracy, il documentario sulla pesca uscito su Netflix qualche settimana fa.

Il documentario è stato tacciato di semplicismo e sensazionalismo non solo dal settore della pesca, ma anche dalla comunità scientifica e da alcuni degli intervistati stessi. Gli autori avrebbero citato fonti obsolete, escluso dati importanti, e riportato casi circoscritti per trarre conclusioni sulla situazione globale. I dettagli sono importanti, e fare le pulci a un’operazione narrativa fuorviante è necessario al corretto funzionamento delle nostre democrazie.

Chi sostiene che gli errori possano passare in secondo piano rispetto all’importanza della causa dimentica che, in altre occasioni, operazioni narrative simili potrebbero essere utilizzate per supportare cause che non approviamo. L’informazione si protegge dalla propaganda evitando di applicare due pesi e due misure ed esigendo che sia sempre il più fattuale possibile.  

Pesca (in)sostenibile

Il rischio in questi casi è però quello di concentrarsi troppo sulle critiche senza finalmente cogliere l’opportunità per fare chiarezza su problemi e soluzioni. Per esempio, nonostante il documentario abbia sbagliato a dipingere la situazione globale, si può dire che abbia ritratto in modo relativamente accurato la situazione drammatica in cui si trova il mediterraneo. Infatti, secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dalla Commissione Europea, l’85 per cento degli stock ittici europei sarebbe pescato in condizioni di insostenibilità, e il 64 per cento sarebbe sovrasfruttato al punto da rischiare il collasso nei prossimi anni.

«La situazione nel mediterraneo è tragica, però si pesca sempre di più» dice Gianpaolo Coro, ricercatore del Cnr-Isti e uno dei membri del team di ricerca indipendente e internazionale che ha informato il rapporto della Commissione europea. Il team di cui fa parte Coro ha sviluppato il modello matematico al momento più utilizzato a livello globale per stimare lo stato di salute degli stock ittici. Secondo il modello, la pesca è sostenibile se consente a una popolazione di pesce di rimanere costante, in equilibrio, cioè se si pesca al massimo la quantità di pesce che quella popolazione riuscirà a ripopolare in un anno. «Quando la popolazione arriva al di sotto di una certa soglia, che è diversa a seconda dello stock ittico, il pesce comincia a non riprodursi più» spiega Coro.

Nell’ultimo ventennio sempre più imbarcazioni di pesca industriale si sono aggiunte ai piccoli pescherecci locali del mediterraneo (e in molti casi li hanno sostituiti) dopo aver impoverito altri mari. «Agli inizi del Duemila hanno iniziato ad arrivare imbarcazioni cinesi e giapponesi che cercavano il tonno rosso, e addirittura si portavano indietro i tonni vivi in apposite gabbie» dice Elia Orecchia, pescatore di Genova. Orecchia lavora su un piccolo peschereccio insieme a padre, cugini, nipoti e sorella. «Se finisce questo, muore la famiglia». Oggi i piccoli pescherecci, quelli sotto i 12 metri di lunghezza, rappresentano solo il cinque per cento di tutto il volume di pesce pescato nelle acque dell’Unione europea. La pesca industriale invece cresce e si comporta come un predatore insaziabile, tendendo sempre a esaurire le proprie risorse.

La pesca artigianale ha un impatto relativamente basso rispetto alla pesca industriale, ma è anche il settore più colpito dall’impoverimento della biodiversità marina. I pescherecci industriali infatti, con le loro enormi reti, possono pescare con più facilità il poco che è rimasto. «Non ci si può permettere di rimuovere così tante tonnellate di pesce in poche ore. Non ci rimane più niente, è logico – dice Orecchia – quelli non sono pescatori, sono persone che lavorano in fabbrica. La persona che è seduta nella plancia di una di quelle imbarcazioni magari ha mille qualifiche, ma non è un pescatore. È un altro mondo».

Regolamentare

La buona notizia è che la pesca non funziona con proporzioni lineari, e lo studio di Gianpaolo Coro ha mostrato che se solo riducessimo le ore di pesca del venti per cento, entro il 2030 il pesce da poter pescare in modo sostenibile aumenterebbe quasi del sessanta per cento rispetto a oggi. I pesci si riproducono in modo relativamente veloce, e la fauna marina potrebbe non solo ripopolarsi, ma “sovrappopolarsi” se solo le dessimo il tempo di farlo. Si potrebbero fare chiusure ragionate: invece di tagliare le ore di pesca indiscriminatamente, si potrebbero imporre restrizioni e divieti specifici per tipologia di pesca in diverse aree. «La sostenibilità di una tipologia di pesca – dice Coro – dipende dal posto in cui si pratica».

Per comprendere di più l’impatto di diversi pescherecci in diverse aree c’è però urgente bisogno di più trasparenza e tracciabilità. Un passo in avanti si è compiuto grazie all’introduzione dei sistemi di gps, che consentono di identificare tutte le navi presenti in mare in ogni momento e studiarne gli spostamenti, e grazie a un sistema sempre più sofisticato di raccolta di dati a livello europeo. Ma ancora non si è fatta un’analisi sistematica del comportamento delle flotte e del loro impatto. «Si fanno grandi stock assessment che però sono spesso poco trasparenti dal punto di vista dei modelli e dei dati utilizzati», dice Coro. Secondo Manuel Barange, il direttore del dipartimento di pesca e acquacoltura della Fao, gli stessi dati della Fao «Dovrebbero essere interpretati principalmente in termini di tendenze».

Ridurre il consumo

Quel che è certo è che la situazione non si risolverà finché non ci prenderemo le nostre responsabilità di consumatori a nostra volta “intensivi”. Per salvare i nostri mari, sarà necessario invertire la tendenza dei nostri consumi e, più in generale, il modo in cui ci relazioniamo al mondo naturale e animale. «Dobbiamo ripensare a livello globale il modo in cui percepiamo la disponibilità alimentare» dice Coro. Modificare i nostri consumi, tra l’altro, non significherà abbandonare le tradizioni. Casomai, recuperarle. Il nostro consumo di pesce è infatti quasi quadruplicato rispetto agli anni Sessanta. Questo significa che è solo da pochi decenni che siamo abituati a mangiare tanto pesce, sempre le stesse specie, in qualsiasi stagione, e a buon prezzo. «Siamo diventati viziati. Ogni tanto arriva qualche cliente che chiede pesce e se il pesce non c’è si arrabbia, dice che non torna più. Ormai è dato tutto per scontato», dice Orecchia.

La scelta vegana, per quanto sembri sempre più razionale, non sarà comunque necessaria. Si dovrà però ridurre drasticamente il nostro consumo di pesce, renderlo uno sfizio più saltuario e comprarlo il più possibile da pesca artigianale, in mercati e piccoli pescivendoli. Questo vorrà anche dire imparare ad accettare che una determinata tipologia di pesce non sia disponibile in certi momenti e luoghi. E significherà provare specie diverse e magari più disponibili in un certo mare. «Per esempio il filetto di lanzardo, che si trova qui a Genova e che noi del posto chiamiamo cavalla, è poverissimo ma buonissimo. La gente non sa cosa si perde», commenta Orecchia.

Azioni politiche

Ma almeno nel breve termine, ridurre i nostri consumi non sarà sufficiente. Il rapporto tra pesca e mercato è molto più complesso di quello che sembra. «L’industria della pesca non è direttamente dipendente dalla domanda al dettaglio e l’input che non c’è più richiesta di pesce arriva veramente dopo molto tempo», spiega Coro. Il rischio è che anche se smettessimo di mangiare pesce, la pesca industriale potrebbe andare avanti per anni agli stessi ritmi.

Quello che serve – e che manca – è la volontà politica di prendere decisioni difficili. Sarà necessario coordinare sforzi locali e internazionali per imporre regolamentazioni più stringenti, e farlo con urgenza. Proprio come la lotta al tabacco nei luoghi pubblici al chiuso è stata vinta dai divieti di fumare, e non dagli appelli ai fumatori, la lotta alla pesca illegale e agli altri imbrogli dell’industria della pesca avrà bisogno di azioni politiche dirette dai governi. I governi di trenta paesi e l’Unione europea prendono le decisioni che plasmano il 90 per cento del pescato mondiale. Il problema vero, allora, è che non ci sono abbastanza persone a esigere queste decisioni politiche.

La situazione della pesca nel mediterraneo è una delle tante prove che il cibo non è solo cultura, tradizione, dieta. Il cibo è politica. E noi non siamo solo consumatori. Siamo cittadini. Dobbiamo quindi fare pressione, come possiamo, in entrambe le vesti.

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