Il colore giallo paglierino è inconfondibile, minuscoli puntini marroni corrono lungo tutta la superficie. La pelle è avvizzita, un’ammaccatura più scura segnala il tempo che passa, mentre il picciolo è completamente secco. La mela è ferma lì da chissà quanto, nascosta nel cassetto della frutta e della verdura.

Accanto, un paio di carote, anche loro raggrinzite, sono le ultime rimaste nel vassoio di plastica che le conteneva. L’avanzo della cena della sera prima, acquistata con un clic sullo smartphone, è ancora nella sua confezione, lasciata in frigo con l’idea ottimistica – e quasi mai reale – che sarà consumata il giorno dopo.

Per capire la portata dello spreco alimentare, il suo impatto sull’ambiente, dobbiamo partire da questa immagine, quella di un comune frigo che si trova nella stragrande maggioranza delle nostre case.

Quanti di noi, in questo preciso momento, aprendo lo sportello, si accorgerebbero di quel vasetto di yogurt scaduto da giorni? Probabilmente la maggioranza.

Emissioni “sprecate”

Per capire lo spreco alimentare dobbiamo però contare tutte le mele, le carote e i vasetti di yogurt che finiscono nella spazzatura, sommare i prodotti che restano invenduti sui campi e gli scarti generati dall’industria alimentare.

Scopriremmo che ogni anno vengono sprecati 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti commestibili, un terzo della produzione mondiale, per un costo totale che, secondo la FAO, supera i duemila miliardi di dollari.

Solo in Europa buttiamo nell’immondizia 88 milioni di tonnellate di cibo. Numeri da capogiro che, secondo l’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, contribuiscono per l’8 per cento delle emissioni totali di gas serra. Vale a dire che, nella torta delle responsabilità della crisi climatica, insieme ai trasporti, al settore energetico, a quello agricolo, dobbiamo aggiungere una fetta generata dagli alimenti gettati nella spazzatura.

Andrea Segré, professore dell’Università di Bologna, economista e soprattutto tra i maggiori esperti italiani di spreco alimentare, è perentorio: «spesso scambiamo il frigo per un pattumiera».

Per dimostrarlo mi racconta i dati di una ricerca che hanno condotto selezionando un campione di 400 famiglie a cui hanno chiesto di compilare un “diario dello spreco”.

«Oltre alla registrazione dei dati riportati sul diario da ogni singola famiglia», spiega, «abbiamo aggiunto una verifica in più: siamo andati a casa loro per controllare i rifiuti». Risultato: rispetto al mezzo chilo di spreco pro capite a settimana dichiarato, si arrivava a 700 grammi.

Una mela tira l’altra (nella spazzatura)

Mentre buttiamo una mela, il frutto più presente sulle nostre tavole, dobbiamo sapere che questo gesto rappresenta il risultato di un processo produttivo che ha escogitato le più disparate soluzioni per permetterci di mangiare mele tutto l’anno, una filiera complessa che ha il suo impatto sull’ambiente: il terreno dove sono stati piantati i meleti, i fitofarmaci con cui sono stati trattati, l’acqua per l’irrigazione, il trattore, il lavoro dell’agricoltore, la raccolta fatta con i carri, il trasporto all’industria, la refrigerazione, il confezionamento, il trasporto (di nuovo) verso il punto vendita: ognuno di questi passaggi utilizza energia, consuma carburante; in una parola, genera emissioni.

Dal canto suo il frutteto assorbe CO2 e rilascia ossigeno, rivestendo quindi un importante ruolo ecologico, oltre che produttivo. Ma questo sistema complesso si rompe quando il singolo frutto viene sprecato. Per portare sulle nostre tavole un chilo di mele è necessario produrne un chilo e trecento grammi, come dimostra uno studio sull’impatto ambientale dello spreco in Europa. La differenza di trecento grammi viene persa durante il tragitto.

È come se ogni cinque mele una venisse buttata, una fetta nella fase della produzione, una nella trasformazione, una sugli scaffali del supermercato e un’altra, quella più grande, dentro casa.

L’effetto ecologico del lockdown

Eppure qualcosa sembra cambiare e, proprio a partire dal lockdown di marzo, lo spreco delle famiglie italiane sembra diminuito tanto che, secondo i dati del rapporto dell’Osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market/SWG, è sceso a poco più di 400 grammi settimanali.

È ancora presto per dire se questo sia un dato strutturale perché raccolto in una fase eccezionale, quella della pandemia, in cui le abitudini alimentari sono radicalmente cambiate, con il ritorno ai fornelli di milioni di persone.

È ancora presto anche perché nella società dei consumi descritta da Baudrillard, in cui siamo ancora profondamente immersi, «lo spreco assume una funzione sociale superiore, è la rappresentazione dell’abbondanza» e il cibo ha perso valore. «Per questo», conclude Segrè, «è essenziale che il consumatore faccia scelte consapevoli quando fa la spesa».

Alle scelte responsabili del cittadino, vanno però affiancate quelle della Grande distribuzione organizzata (GDO) – che continua invece a indurre al consumo attraverso continue scontistiche – e quelle della politica.

Quello che è certo è che, con la strategia Farm to Fork, la Commissione europea si è impegnata a dimezzare lo spreco alimentare pro capite entro il 2030. Solo nel 2022, però, stabilirà obiettivi vincolanti. Resta da capire cosa succederà nel frattempo nel nostro frigorifero, dove uno yogurt aperto da giorni attende malinconico il suo destino.

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