Ad agosto, mentre le lunghe giornate estive islandesi iniziavano ad accorciarsi, Sölvi Thrastarson del politecnico federale, l’Eth, di Zurigo si è unito alla folla di turisti che a frotte visitavano un nuovo vulcano nato a pochi chilometri da Reykjavík, che proprio per la facilità con cui poteva essere raggiunto ha fatto da prima donna per vari mesi comparendo su media di ogni genere.

Proprio il gran numero di persone che hanno voluto visitare il vulcano è stato ciò che di meglio non poteva sperare il ricercatore. Ad aprile dello scorso anno infatti, Neyðarlínan, la società islandese di telecomunicazioni di emergenza, ha steso una linea in fibra ottica sul vulcano, fornendo accesso a internet in una regione priva di servizi cellulari. Per i turisti la fibra sarebbe stata stata un’àncora di salvezza digitale nel caso ci fossero stati incidenti. 

Per il ricercatore era invece un modo per misurare il polso del vulcano. Per diverse settimane nella tarda primavera, infatti, da una piccola baracca di servizio in un parcheggio improvvisato scavato in un vecchio campo di lava, Thrastarson e colleghi hanno sfruttato la fibra con un “interrogatore”, un apparecchio che ha sparato impulsi laser lungo il cavo e ne ha registrato la risposta. 

Ogni pochi giorni, un membro del gruppo di lavoro arrivava da Reykjavík per recuperare il set di dati. Poi, nei loro uffici, i ricercatori hanno setacciato i dati, alla ricerca di indizi su ciò che accadeva all’interno del vulcano irrequieto.

Un mondo di fibre ottiche

Le esigenze dell’era di internet hanno avvolto il mondo in una rete di fibre. La fibra ora collega quartieri e servizi pubblici, telecamere del traffico e mezzi di trasporto di massa. Per i geologi, è sempre stata un mezzo per raggiungere un fine: un modo per collegare una stazione geologica a un’altra o un sensore di pressione sottomarina alla centrale di rilevamento. Ma ciò è cambiato negli ultimi anni. 

«Ora è la fibra stessa il sensore», dice Jonathan Ajo-Franklin, geofisico alla Rice University. «Stiamo raccogliendo dati come mai prima».

I princìpi del rilevamento in fibra ottica sono relativamente semplici. I cavi sono fasci di fibre di vetro, ciascuno non più spesso di un capello umano, che trasportano informazioni codificate nella luce. Piccoli “difetti” orientati in modo casuale all’interno delle fibre agiscono come minuscoli specchi, diffondendo la luce stessa. 

Gli “interrogatori”, chiamati dai ricercatori anche “box” (scatole), funzionano in modo molto simile ai radar. Sparano un impulso laser in una fibra inutilizzata e registrano lo schema dei riflessi che ritornano lungo la lunghezza del cavo. Quando un’onda di pressione esterna attraversa una sezione della fibra, che si tratti di un terremoto o di un calpestìo prodotto da una persona o da un mezzo di trasporto, si ha un’alterazione del modo in cui si muove la luce all’interno della fibra stessa. 

Le variazioni sono nanometriche (un nanometro è un miliardesimo di metro), ma sufficienti per creare un’immagine di un’onda sismica che passa. A differenza dei sismometri tradizionali, che sono distanziati di vari chilometri, la fibra offre l’equivalente di un sismometro ogni metro o due lungo il cavo. 

Questa densità, combinata con il basso costo e la robustezza della fibra, ha spinto i ricercatori a posare cavi su ghiacciai, vulcani, permafrost e zone di faglie sismiche, ovunque la terra possa spaccarsi o scricchiolare. «Queste fibre sono davvero ovunque e questo è un punto di svolta», dice Biondo Biondi, geofisico alla Stanford University. «Possiamo avere sensori sismici ovunque e a basso costo».

La fibra sta rivelando faglie sismiche precedentemente sconosciute, oltre a meccanismi nascosti di ghiacciai e valanghe e gorgoglii vulcanici che potrebbero aiutare a prevedere le eruzioni. 

Esperimenti

Come molte tecniche scientifiche rivoluzionarie l’uso della fibra per questo tipo di rilevamento ha le sue origini nella ricerca militare statunitense. A partire dagli anni Ottanta, la marina ha fatto trascinare dalle proprie navi cavi in fibra ottica al fine di rilevare i suoni dei sottomarini nemici: e per questo la tecnica è ancora talvolta chiamata “Distributed acoustic sensing” (Das). 

Al di là di terremoti e vulcani le fibre hanno trovato anche altri campi di applicazione. Nel 2016, ad esempio, Ajo-Franklin ha condotto un esperimento a Fairbanks, in Alaska, per verificare se le fibre potessero monitorare il permafrost, lo strato sotto la superficie del suolo ghiacciato che è minacciato dai cambiamenti climatici. 

I ricercatori hanno posato un cavo in fibra lungo quattro chilometri in un sito di ricerca militare. Poi più di 100 piccole “stufe” hanno riscaldato il terreno e una grossa macchina lo ha fatto vibrare. I dati ottenuti – centinaia di terabyte – hanno dimostrato che le fibre potevano effettivamente rilevare lo scongelamento che era stato indotto artificialmente.

Fulmini e ponti

Tieyuan Zhu, un geofisico della Pennsylvania State University (Penn State), pensa che le fibre possano essere utilizzate anche per studiare l’aria. Sono in grado infatti, di distinguere la pioggia battente dalle raffiche di vento, un tuono da un fulmine e così via.

Ma non è tutto, in quanto sono tanti i lavori che dimostrano come le fibre possano rilevare incendi, frane e ogni tipo di minaccia naturale. 

Posate su ponti ed edifici sono in grado di rilevare quando l’infrastruttura è vicina a una possibile rottura e non ultimo potrebbero sostituire i sensori di movimento e le telecamere utilizzate per monitorare i confini e le recinzioni. A differenza delle telecamere, al Das «non importa se piove o se c’è nebbia. Un movimento anomalo lo intercetta sicuramente», afferma Biondi. 

Prevedere l’eruzione

Lo svantaggio della fibra è l’incredibile quantità di dati che produce. E che risultano complessi da processare. Nonostante questo risvolto negativo, le ricerche per l’utilizzo delle fibre non si fermano. 

Fichtner e il suo gruppo di ricerca hanno da poco concluso una campagna di un mese in Grecia dove hanno depositato 30 chilometri di cavo a nord di Atene, aggiungendo durante una notte 10mila sismometri ai 20 esistenti nella regione. Un lavoro che sarebbe impossibile con i sistemi finora usati.

La speranza è di mettere in luce faglie nascoste che potrebbe causare sismi. A ottobre hanno deposto un cavo sottomarino che collega le isole di Santorini e Ios. Corre vicino al Kolumbo, un grande e misterioso vulcano sottomarino che eruttò l’ultima volta nel 1650, ma che ha mostrato preoccupanti segni di attività. I vulcanologi sperano che le fibre possano avvisarli dell’arrivo di un’eruzione prima che sia troppo tardi.

Temperature in aumento

C’è un’altra notizia da segnalare in questa prima settimana della scienza dell’anno. Riguarda l’ambiente periglaciale alpino, la zona compresa tra il limite superiore del bosco e il limite inferiore dei ghiacciai. È una zona dove il clima è dominato da una significativa variabilità della temperatura, sia diurna sia stagionale, e la pioggia e la neve cadono principalmente in primavera e autunno.

L’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irpi) ha condotto uno studio climatico pubblicato recentemente sulla rivista Journal of Mountain Science (Jms) le cui conclusioni dicono che l’ambiente periglaciale alpino, nel trentennio 1990-2019 ha fatto osservare tassi di riscaldamento di 0,4, 0,6 e 0,8 gradi centigradi ogni dieci anni, rispettivamente per le temperature medie, massime e minime annuali.

Spiega Guido Nigrelli del Cnr-Irpi: «Questi tassi di riscaldamento sono superiori a quelli osservati nello stesso periodo per le temperature medie sull’intera area alpina (0,3 gradi ogni dieci anni) e a livello globale (0,2 gradi ogni dieci anni)». 

L’ambiente periglaciale alpino è dunque molto sensibile al riscaldamento climatico. Ed è un problema. «Molte centrali idroelettriche hanno i loro invasi artificiali di raccolta delle acque meteoriche e di fusione dei ghiacciai e delle nevi, localizzati proprio nelle aree periglaciali alpine», dice il ricercatore del Cnr-Irpi.

«Inoltre questo ambiente, in conseguenza dell’aumento della temperatura dell’aria e della conseguente contrazione dei ghiacciai e della degradazione del permafrost, è sempre più interessato da processi di instabilità naturale che coinvolgono i versanti rocciosi, mettendo a rischio vie alpinistiche attrezzate e sentieri di alta quota con ricadute anche sul turismo, una delle principali risorse economiche delle popolazioni montane».

In futuro molti ghiacciai potrebbero scomparire. «Nel 2050, sulle Alpi numerosi ghiacciai sotto i 3mila metri saranno estinti, lasciando il posto a zone periglaciali», spiega Nigrelli.

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