La formula con la quale l’Unione europea ha stabilito i suoi obiettivi di decarbonizzazione per il 2050 è “net zero”, zero emissioni nette, dove nette è una parola chiave per capire la strada scelta per i prossimi tre decenni. Il calcolo per arrivare alla neutralità da un lato prevede un taglio reale e sostanziale delle emissioni inquinanti di anidride carbonica, ma dall’altro include il suo assorbimento da parte dei cosiddetti carbon sink, i pozzi di carbonio, principalmente le foreste.

Ci sarebbe anche un terzo elemento, che però è più che altro teorico, le tecnologie di cattura e stoccaggio della Co2, sul cui ruolo nessuno si può davvero sbilanciare perché non sono mai state operative su larga scala. Al momento l’assorbimento dell’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera non può che essere affidato a quelle che si chiamano nature based solution. Il tema politico è se contarle oppure no.

L’assorbimento naturale

La scelta di inserire l’assorbimento naturale nei conteggi della decarbonizzazione è infatti un punto contestato e merita approfondimento. Da un lato, le foreste sottraggono effettivamente anidride carbonica, tra 225 e 340 milioni di tonnellate nei prossimi dieci anni in Europa. Questo contributo è considerato fondamentale per raggiungere gli obiettivi, soprattutto per mitigare le emissioni dei settori dell’economia per i quali non sappiamo ancora bene come abbatterle, come la produzione di acciaio (l’idrogeno verde valutato per Ilva è molto costoso al momento) o i trasporti pesanti, come gli aerei e le navi cargo.

Dall’altra parte, molte organizzazioni ecologiste (tra queste il Wwf, i Fridays for future e Carbon market watch) hanno accusato l’Unione europea di aver istituzionalizzato il greenwashing già praticato dalle aziende private che vendono prodotti e servizi inquinanti come carbon neutral in cambio della piantumazione di alberi in giro per il mondo. L’obiezione di chi non vorrebbe inserire i carbon sink nei conteggi è che questi calcoli rischiano di creare un’illusione di falsa sicurezza sulla transizione e di attenuare o rallentare l’effettivo taglio delle emissioni di anidride carbonica. Il punto di chi ha scelto di inserirli, come ha spiegato più volte Frans Timmermans, commissario europeo per il Clima e il Green deal, è che «quel ruolo è reale, i pozzi di carbonio sottraggono Co2 dall’atmosfera, non è quello che vogliamo raggiungere? Non capisco la logica di queste obiezioni».

Il problema è che hanno ragione entrambi, il ruolo delle foreste è certificato dall’Ipcc (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, punto di riferimento scientifico assoluto sulla materia) e serve a rendere meno impervia una strada già di suo piena di ostacoli. Perché complicarci la vita, sembra dire Timmermans. Il problema è che sono la vita e la transizione energetica a essere complicate e dare un ruolo troppo importante alle foreste può facilitarci il compito nel medio termine ma rischia di non pagare nel lungo.

Rischi e difficoltà

Lorenzo Ciccarese è ricercatore all’Ispra e ha contribuito a scrivere le linee guida dell’Ipcc sull’assorbimento di carbonio. Insomma, conosce bene i termini della questione. «Il primo problema è la difficoltà di misurazione, necessaria per avere un bilancio con i benefici concreti, reali ed effettivi dell’assorbimento. Il secondo, più importante, è la non permanenza delle foreste. Il carbonio assorbito da un albero torna nell’atmosfera quando l’albero muore, per un incendio, una malattia, la Xylella, e allora tutto il lavoro è vanificato», spiega Ciccarese, aggiungendo il punto centrale: «Purtroppo sia gli incendi che le malattie degli alberi sono in aumento».

Il paradosso è che conteggiamo il lavoro delle foreste nei nostri sforzi di mitigare il cambiamento climatico quando lo stesso cambiamento climatico rende quella mitigazione da parte delle foreste sempre più incerta. La tempesta Vaia, che ha abbattuto 8 milioni di metri cubi di alberi nell’autunno del 2018 ed è stata in parte causata dal riscaldamento anomalo del Mediterraneo, ha rilasciato in un colpo solo il 2 per cento delle emissioni annuali italiane. I catastrofici incendi in Siberia del 2019 hanno riportato nell’atmosfera il triplo delle emissioni annuali del nostro paese.

Per dirla con le parole di Tommaso Anfodillo, ecofisiologo dell’Università di Padova: «Se risparmiamo una tonnellata di emissioni di Co2 grazie a una pala eolica abbiamo risparmiato una tonnellata di emissioni. La stessa tonnellata, assorbita da un bosco, a un certo punto rischia di tornare indietro e non possiamo sapere quando quel punto arriverà, perché gli eventi di disturbo per le foreste sono sempre più frequenti». Anfodillo è uno dei principali conoscitori italiani della materia e anche lui invita a fare attenzione a caricare troppo il «peso» della mitigazione sui boschi, non per ambientalismo radicale ma per il funzionamento stesso dei bilanci naturali di carbonio. I boschi assorbono ed emettono, a seconda dei loro cicli naturali e degli eventi esterni.

«Nessuno ama gli alberi più di me, ma a volte ho la sensazione che loro stessi vorrebbero dirci: umani, fate qualcosa anche voi. Un altro rischio è quello di sovrastimare quantitativamente il loro impatto. Un progetto come quello di cui si parla tanto, piantare 60 milioni di nuovi alberi in Italia, assorbirebbe lo 0,17 per cento delle emissioni annuali, a essere generosi sulle loro prospettive di crescita. Le foreste sono fondamentali per una lunga serie di motivi: la regimazione dell’acqua, la protezione da frane e valanghe, la tutela della biodiversità. Ma sull’assorbimento di carbonio dobbiamo andarci cauti, e non usarlo come una scusa per guadagnare tempo e per continuare a inquinare nel frattempo: per assorbire le emissioni attuali della nostra economia servirebbero altre tre Italie coperte di boschi. Dato che non è pensabile, la soluzione deve essere tagliare, non compensare».

Le foreste non sono tutte uguali

L’altro grande rischio è che non bisogna avere un’immagine statica e compatta delle foreste, come se fossero tutte uguali nel loro lavoro di mitigazione climatica, giovani o vetuste, gestite o naturali. Come spiega Ciccarese, riuscire a misurare in modo realistico l’assorbimento è fondamentale, sia per avere un’idea concreta e spendibile politicamente degli effetti sia per gestire le foreste in modo che quell’assorbimento venga massimizzato. Se dobbiamo metterle al centro dei nostri calcoli e progetti di decarbonizzazione, dobbiamo anche farlo in modo più evoluto.

Uno dei progetti più innovativi su questo fronte si chiama Madames-Ax, è stato condotto dall’ente di certificazione forestale Pefc con il Cmcc, Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici. Insieme all’azienda di osservazione ambientale Meeo, i due soggetti hanno sviluppato un modello di proiezione informatica applicato a una piccola area boschiva, il consorzio agro-forestale dei Comunelli di Ferriere, per misurare l’assorbimento presente e prevedere quello futuro, basato sui diverse prospettive di aumento delle temperature.

«Il modello ha simulato lo sviluppo forestale sotto diversi scenari climatici, dal più ottimista al più pessimista», spiega Monia Santini, ricercatrice Cmcc e referente scientifica del progetto. «Il risultato è che il cambiamento climatico riduce la capacità di assorbimento. Più il mondo diventa caldo e meno i boschi sono efficienti nella mitigazione». La buona notizia è che questo calo di efficienza, secondo i modelli di Madames-Ax, può essere attenuato grazie ai protocolli esistenti di gestione forestale sostenibile. L’assorbimento del carbonio migliora del 18 per cento nel medio termine e del 28 per cento nel lungo termine. Il problema è che in Italia la maggior parte dei boschi non è affatto gestita e meno del 10 per cento segue pratiche di gestione sostenibile certificata dai due modelli internazionali (Pefc e Fsc). Il senso è che se proprio vogliamo usare le foreste per migliorare la nostra transizione verso la neutralità carbonica, dovremmo almeno metterle in condizione di farlo.

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