«Quando sento stormire una giovane foresta piantata con le mie mani, mi convinco che il clima è un poco in mio potere e che, se tra mille anni un uomo sarà felice, una parte di colpa ce l'avrò io».
Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, chi parla è Astrov, il medico di Zio Vanja di Čechov e questa è Areale, una newsletter sull'ambiente, la speranza e l'azione, perché il clima, come scriveva Čechov, è un po’ in nostro potere davvero (iscriviti qui).

La strada da Schiphol a Shell

Che il potere sia anche in mano nostra lo ha dimostrato una storia che viene dall'Olanda. Un tribunale dell'Aia ha ordinato a Shell di tagliare entro il 2030 le sue emissioni di carbonio del 45 per cento rispetto al 2019. Non c'è modo di sottovalutare le implicazioni di questa decisione. Il giudice ha detto: «L'interesse nell'obbligo di riduzione è più importante degli interessi commerciali del gruppo Shell». Si è fatta la storia, più o meno. Nello specifico, l'ha fatta un'organizzazione ambientalista chiamata Milieudefensie («Difesa dell'ambiente» in olandese). Vale la pena di conoscerli, questi di Milieudefensie, e c'è una vicenda divertente e simbolica che li riguarda, utile a capirne lo spirito: quella della foresta accanto all'aeroporto Schiphol di Amsterdam.

A metà anni Novanta l'organizzazione che ha piegato Shell aveva un avversario relativamente più modesto: l'ampliamento dell'aeroporto di Amsterdam, e questo mi fa riflettere anche su quanto sia cambiata la scala dell'azione dei movimenti ecologisti. Per fermare la nuova pista di Schiphol (che poi si fece in ogni caso), Milieudefensie comprò i terreni sui quali era prevista, li divise tra i suoi attivisti e ci piantò degli alberi: la definirono «foresta azione» e la chiamarono Bulderbos (foresta dei tuoni), nome che ancora porta. Al di là del linguaggio enfatico, è un piccolo boschetto di latifoglie con un grande significato simbolico. Una parte dei terreni fu comunque espropriata dopo una lunga battaglia legale, ma un pezzetto di foresta (poco meno di un ettaro) resiste, e ancora oggi, a turni, i volontari dell'organizzazione vanno a curarlo. Ci si arriva facilmente in bicicletta, se capitate da quelle parti. Deve essere un posto particolare.

Rechtenvrij voor gebruik Milieudefensie

Tornando alla causa contro Shell (in cui Milieudefensie, insieme ad altre organizzazioni, rappresentava oltre 17mila cittadini), sotto la battaglia legale ce n’era anche una simbolica, fatta di parole e politica. L'anno scorso il Ceo di Shell, Ben van Beurden, aveva rassicurato gli investitori: «Il nostro core business è fatto di petrolio e gas e, per quanto possiamo prevedere, sarà così anche in futuro». A novembre un rappresentante dell'azienda (che farà ricorso) aveva ribadito: «Quello che può accelerare la transizione energetica è una politica efficace, investimenti in tecnologia e cambiare le abitudini dei consumatori». Insomma, Shell (come altri colossi del settore) invitava a guardare più in alto di sé (la policy), più in avanti (la tecnologia) e più in basso (i consumatori). Insomma, chiunque ma non loro. Il tribunale invece ha rovesciato il ragionamento e ha detto: esattamente voi, Shell. Per questo è un pezzo di storia.

È stata per altro una settimana di sconfitte per le fonti fossili. Nel consiglio d'amministrazione di ExxonMobil c'è stato quello che qualcuno ha definito un golpe, con due nuovi consiglieri d'amministrazione eletti per chiedere azione climatica. Gli azionisti di Chevron hanno votato in maggioranza per tagliare le emissioni. Cosa succede ora? Innanzitutto, dopo il caso Shell aumenteranno le cause e l'attivismo legale (dal 2000 a oggi, ricorda Politico, ci sono stati già 3.000 processi di questo tipo). Ma anche gli azionisti hanno iniziato a mostrare segni di inquietudine: continuare a spingere su petrolio e gas in un mondo che sta passando alle rinnovabili rischia di costare molti soldi, bloccati in stranded assets, infrastrutture e investimenti che potrebbero non valere più niente nel giro di un decennio. È presto per dirlo, ma potrebbe esserci un effetto valanga, finanziaria, legale, percettiva, culturale. 

Rinnovabili di comunità

C'è un aspetto poco raccontato delle fonti rinnovabili di energia ed è il loro potenziale comunitario di autoconsumo e autoproduzione: comuni, famiglie, gruppi di cittadini che installano piccoli impianti autosufficienti e raggiungono due obiettivi contemporaneamente, consumare energia pulita e risparmiare soldi. In Italia succede già, sotto i nostri occhi ma lontano dalle cronache. Si tratta di un mondo che Legambiente segue con molta attenzione e che ha raccontato nel nuovo rapporto Comunità rinnovabili.

Sono due quelle già funzionanti, si contendono il «primato» di prima comunità energetica in Italia. Ma poco importa, conta che esistano: sono quelle di San Giovanni a Teduccio, cioè Napoli, e Magliano Alpi, in provincia di Cuneo. Altre sedici sono in fase di progetto e sette in fase preliminare. Questo è un microcosmo che la transizione energetica, così macchinosa dall'alto per le resistenze che sappiamo (vincoli, lentezza, sovrintendenze, tutela estrema di un'idea feticcio del paesaggio), sta invece facendo dal basso. È anche un modo per affrontare un altro problema invisibile della società italiana: la povertà energetica che colpisce almeno due milioni di famiglie. La comunità di Napoli nasce con un investimento di 100mila euro finanziato da una fondazione locale (Fondazione Famiglia di Maria), raggiunge quaranta famiglie con disagi sociali e permetterà a ciascuna di esse di risparmiare fino a 300 euro all'anno.

Quella di Magliano Alpi è invece strutturata intorno a un impianto fotovoltaico sul tetto del municipio, che dà autonomia a una serie di strutture comunali (una biblioteca, una palestra, la scuola, il municipio stesso) e offre l'energia in surplus a cinque famiglie che hanno aderito al progetto. Non è un piccolo mondo residuale, qui c'è del potenziale sostanziale. Secondo un altro studio (di Elemens con Legambiente) le comunità energetiche da rinnovabili possono arrivare a 16GW di potenza installata entro il 2030. Sarebbe il 30 per cento dell'obiettivo climatico del Pniec (il piano energetico nazionale). È vero che quel piano va aggiornato ai nuovi obiettivi europei, ma è comunque una quota che restituisce la scala del potenziale di queste comunità.

Il Trifoglio artico e altri demoni

Sono giorni intensi per l'Artico, caldi in ogni senso possibile della parola. Innanzitutto, perché ha già iniziato a fare molto caldo. Parliamo di temperature sopra i 30°C. In Artico. A maggio. Nella Siberia orientale si è arrivati a 10°C sopra le medie stagionali, questo è preoccupante per tutta una serie di motivi, tra cui il fatto che lo scioglimento del permafrost rilascia metano nell'atmosfera, un gas molto più climalterante della Co2, una dinamica che secondo una recente ricerca non viene ancora conteggiata nel modo corretto all'interno dei nostri target di riduzione delle emissioni. L'Artico è il nostro termometro e ci sta portando notizie preoccupanti.

La situazione da quelle parti è calda anche per motivi geopolitici. I ministri degli esteri degli stati con interessi e terre a settentrione si sono riuniti a Reykjavik nel Consiglio Artico, una delle poche occasioni in cui si incontrano paesi Nato e la Russia, quindi un consesso mai banale. Si è discusso molto della base russa a Nagurskoye, un remotissimo avamposto che durante la Guerra fredda era una non ambitissima stazione meteo, con alto tasso alcolico e frequenti incontri con orsi polari. Oggi è un mega complesso militare in espansione che i russi hanno battezzato Trifoglio artico, e che ha questo aspetto.

Il Trifoglio artico è posizionato sulla rotta settentrionale, che Putin ha tutta l'intenzione di sviluppare come alternativa al Canale di Suez ora che la crisi climatica l'ha resa meno impervia per la navigazione (e che il Canale di Suez ha avuto un improvviso crollo di popolarità per la storia che conoscete). Sulla rotta la Russia reclama una giurisdizione totale, che le Nazioni Unite contestano. Da quelle parti c'è un quarto del potenziale di gas e petrolio ancora da trovare. Blinken è intervenuto sul tema, dicendo che l'espansione militare mina gli sforzi di avere un Artico pacifico e sostenibile, due parole che dobbiamo abituarci a vedere associate.

Blinken è anche passato in Groenlandia e visto che viviamo ancora le conseguenze del mondo surreale creato per noi da Donald J. Trump, ha ribadito che gli Stati Uniti non vogliono comprare la Groenlandia, fatto confermato anche dalla premier danese Mette Frederiksen: «Questa non è una visita immobiliare». È successo davvero.

Colonizzazione assistita

A ottobre, Covid permettendo, ci sarà la Convenzione sulla biodiversità di Kunming, in Cina, un incontro importante quanto quelli di Parigi e Glasgow sul clima, quindi il dibattito sull'argomento è molto intenso, perché presto saranno prese decisioni vincolanti, scritti nuovi protocolli, aggiornati gli obiettivi per salvare la biodiversità della Terra. C'è un tema in particolare di cui si parla tanto nella comunità scientifica, qualcuno la chiama «colonizzazione assistita». La domanda è questa: per salvare una specie in pericolo di estinzione è giusto trasferirla in un altro ecosistema dove potrebbe avere vita più facile e soprattutto più chances di farcela? Gli esseri umani lo fanno da sempre senza porsi problemi, per scopi economici o incuria, ma il mondo della conservazione funziona in modo più rigoroso e, come potete immaginare, questo è un dilemma filosofico quanto scientifico. Ci sono dei rischi a manomettere consapevolmente gli ecosistemi, ma per alcune specie potrebbe essere l'unica possibilità di scampare l'estinzione. Quindi? Che si fa?

C'è un articolo uscito su Science che farà da cornice teorica (e politica) ai lavori che si terranno a Kunming. Si intitola Global Policy for Assisted Colonization of Species, è la richiesta di guida pratica al trasloco di specie animali, con regole, linee guida, protocolli che dicano a scienziati, enti, istituzioni quando, come e se è una buona idea fare questa cosa. È una posizione che inizia a essere condivisa e che cambia l'essenza del lavoro di chi protegge gli ecosistemi: non più semplicemente conservarli rispetto a come li abbiamo trovati, ma modificarli attivamente per salvare il maggior numero di specie, spostando pezzi come in un puzzle (immagine che restituisce bene i rischi di questa idea). Decenni fa questo concetto sarebbe stato un tabù assoluto, anzi, la priorità era evitare gli spostamenti di specie invasive. Poi sono partiti gli esperimenti locali, perché la crisi climatica ha cambiato lo scenario, aumentato il rischio di perdere specie e ammorbidito la comunità. Le decisioni verranno prese a livello globale, la sensazione è che potremmo arrivare a un mondo in cui è una pratica comune traslocare animali e piante attraverso confini internazionali, prendendosi tutti i rischi del caso.

Il fascino discreto del servizio ecosistemico

Chiudiamo parlando di alberi e boschi. Treedom, la piattaforma italiana che permette di piantare alberi a distanza e seguirne online la crescita, ha tagliato il traguardo di due milioni di alberi piantati in diciassette paesi nel mondo. Complimenti! Piantare alberi non eviterà la crisi climatica, ma è comunque un bel risultato, che Treedom festeggia con una campagna di sensibilizzazione per piantare cinque alberi legati agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite: il caffè in Ecuador, il baobab e l’avocado in Kenya, la tefrosia in Madagascar; il lime in Guatemala. Infine, Ecotoni, il podcast sui boschi italiani di cui ho il piacere di essere co-conduttore, ha pubblicato una nuova puntata in cui si parla di acqua e pagamento dei servizi ecosistemici. I boschi sono fondamentali per la nostra sicurezza idrica, per la qualità dell'acqua che beviamo e usiamo, è, appunto, un servizio ecosistemico, i cui costi però ricadono sui gestori forestali. C'è da tempo una conversazione in Italia sul fatto che utility e cittadini potrebbero contribuire a questi costi. Vantaggi, prospettive, difficoltà: se ne parla nella puntata di Ecotoni

Siamo arrivati alla fine, grazie per aver letto fin qui! Se avete critiche, commenti, spunti, citazioni dai classici russi a tema cambiamenti climatici o progetti immobiliari in Groenlandia da proporre potete scrivere al giornale che ospita questa conversazione, lettori@editorialedomani.it, oppure a me direttamente, ferdinando.cotugno@gmail.com.

Grazie e a presto!

Ferdinando Cotugno

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