Adesso ha vinto Joe Biden. L’ultimo dibattito pre elettorale del 22 ottobre scorso in vista delle elezioni americane ha evidenziato, nel più lungo scambio che due candidati alla Casa Bianca abbiano mai avuto sull’argomento, come il presidente Trump e il suo sfidante democratico Biden abbiano portato avanti visioni opposte sulla necessità che gli Stati Uniti debbano abbandonare i combustibili fossili, o quantomeno ridurne grandemente l’uso, per affrontare i cambiamenti climatici.

Nei 12 minuti dedicati alla questione, Biden si è impegnato a mettere gli Stati Uniti sulla strada della transizione verso le energie rinnovabili, sottolineando che questo percorso creerebbe milioni di posti di lavoro.

Trump ha invece affermato che il piano di Biden sarebbe costoso e danneggerebbe l’economia, in particolare quella degli stati produttori di petrolio come il Texas e la Pennsylvania, fra l’altro ritenuti due ‘battleground states’.

Biden ha apertamente detto che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia esistenziale per l'umanità e che gli Stati Uniti hanno l’obbligo morale di affrontare tale crisi. Quando Trump gli ha chiesto se chiuderebbe l’industria petrolifera, l’ex vice di Obama ha risposto affermativamente spiegando che«l’industria petrolifera inquina in modo significativo», che per questo «deve essere sostituita dalle energie rinnovabili», e ha aggiunto che smetterebbe di sussidiarla.

I doveri morali dei petrolieri

L’industria dei combustibili fossili – che a livello globale, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), è il settore energetico in assoluto più dipendente da fondi pubblici avendo ricevuto nel 2018 circa 400 miliardi di dollari in sussidi - ha in effetti un ruolo centrale nella crisi climatica. Ha inondato e continua a inondare l’economia globale con i suoi prodotti, consapevole da decenni che sono dannosi.

Eppure, finora questa industria è sempre riuscita a schivare il colpo, evitando di essere identificata fra i principali responsabili dei cambiamenti climatici. Come ha fatto? Tutte le colpe dei petrolieri (Edizioni Piemme, nelle librerie dal 3 novembre) prova a spiegarlo partendo dai dati scientifici e raccontando attraverso quali meccanismi le più grandi aziende del settore sono diventate l'elefante nella stanza.

Il libro illustra anche un percorso attraverso il quale le compagnie petrolifere possono rispondere alle istanze che la società civile con crescente insistenza sta loro ponendo: quella di compensare le vittime dei cambiamenti climatici a cui esse hanno notevolmente contribuito; e quella di eliminare progressivamente gas e petrolio, e quindi le emissioni a essi associate, dal loro business.

Il soddisfacimento di questi due doveri morali è ovviamente oneroso per l’industria stessa e per la società. E può generare tensioni rilevanti, come dimostra l’azione di alcuni movimenti climatici (soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito). Per questo il carattere democratico e non-violento del percorso è fondamentale. Il fatto che Big Oil sia il maggiore responsabile dei cambiamenti climatici è però un dato di partenza che non si può eludere.

La colpa del mutamento climatico

Il 62 per cento delle emissioni industriali globali di anidride carbonica e metano dal 1751 al 2015 è infatti riconducibile alle attività di cento «majors del carbonio». Lo dicono i numeri del Carbon Majors Database, la banca dati più completa sul tema.

Le emissioni generate da queste 100 multinazionali – da Saudi Aramco a Gazprom, da Total a Shell, da ExxonMobil a Chevron - hanno rappresentato il 91 per cento delle emissioni industriali globali e oltre il 70 per cento di tutte le emissioni di gas serra di origine antropica nel 2015. Altri studi pubblicati negli ultimi anni sulle principali riviste scientifiche hanno rilevato che le emissioni generate da novanta majors del carbonio nel periodo storico 1880-2010 hanno contribuito a circa il 57 per cento dell’aumento osservato delle concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, al 42-50 per cento dell’aumento della temperatura media superficiale globale e al 26-32 per cento dell’aumento globale del livello del mare. Insomma, non c'è dubbio che le compagnie petrolifere abbiano una grande responsabilità per la crisi climatica in corso.

Un fatto relativamente nuovo per la maggior parte di noi, ma non per il settore che anzi conosce da decenni le conseguenze del proprio business. Gli scienziati dell'americana Humble Oil (oggi ExxonMobil) pubblicarono su una rivista scientifica uno studio che riconosceva la scienza dei cambiamenti climatici già nel 1957.

Da allora questi avvertimenti sono stati ribaditi dagli uffici studi di altre compagnie petrolifere, enfatizzando impatti come lo scioglimento delle calotte artiche, l’innalzamento del livello dei mari, il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani, i problemi connessi alle migrazioni climatiche.

Le compagnie sapevano

Negli anni Ottanta, in alcuni documenti interni, l'anglo olandese Shell ha riconosciuto la gravità dei cambiamenti climatici sostenendo che i suoi prodotti ne erano responsabili. Lo stesso discorso vale per altri giganti del settore come Texaco e ConocoPhillips. Tutti questi fatti sono emersi grazie a inchieste giornalistiche che hanno dimostrato come da almeno 40 anni alcune compagnie siano consapevoli dei danni creati dai loro processi e prodotti. Eppure, mentre gli scienziati interni alle compagnie dimostravano tutto questo, le stesse comunicavano all'esterno l'esatto opposto.

Prendiamo il caso di ExxonMobil, conosciuta in Italia con il marchio Esso, la più grande azienda petrolifera americana. Solo nell’aprile 2014 il gruppo ha diramato un documento ufficiale che riconosce i cambiamenti climatici. Prima di allora, però, pur sapendo come stavano le cose, la compagnia ha pubblicato sui principali quotidiani americani articoli e pubblicità che negavano il collegamento diretto tra combustibili fossili e cambiamenti climatici.

Un lavoro svolto spesso in squadra, con l'obiettivo di difendere il proprio modello di business e promuovere il negazionismo climatico anche attraverso soggetti esterni, come la Global Climate Coalition, un'associazione creata negli Usa da Bp, Chevron, ExxonMobil, Shell e Texaco. Questa, per esempio, è stata costituita nel 1989, giusto un anno dopo la fondazione dell'Ipcc, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici nato su iniziativa dell’Organizzazione meteorologica mondiale e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente con lo scopo di studiare il riscaldamento globale.

Con l'aiuto del gigante delle pubbliche relazioni Burson-Marsteller, la Global Climate Coalition ha fatto di tutto per mettere in dubbio la scienza dei cambiamenti climatici e per opporsi alle politiche in favore di una riduzione delle emissioni. Politiche che, infatti, sono state introdotte solo anni dopo. Mentre le principali compagnie petrolifere discutevano al loro interno dei danni provocati dai propri prodotti, fuori le trivellazioni continuavano come se nulla fosse. Negli Usa la produzione petrolifera è passata dai circa otto milioni di barili al giorno del 1983 agli oltre dodici milioni di barili di oggi. E nel resto del mondo le cose non sono andate diversamente.

È così che a cinque anni dall’Accordo di Parigi, in cui buona parte dei governi del mondo si è impegnata a mantenere l’aumento della temperatura terrestre alla fine del secolo sotto i due gradi, tutti i climatologi concordano nell’affermare che l'obiettivo non verrà raggiunto.

Le majors e l’Eni

Sebbene oggi quasi tutte le majors riconoscano gli effetti nocivi sul clima delle proprie attività, la distanza tra teoria e pratica è ancora evidente. Lo dimostra il caso di Eni, una delle compagnie peraltro più attive sul fronte della riconversione green. Nel suo ultimo piano strategico, l'amministratore delegato Claudio Descalzi ha detto di voler ridurre entro il 2050 le emissioni di gas serra associate ai propri processi e prodotti dell’80 per cento in termini assoluti. Eppure, sempre secondo Descalzi, la produzione di petrolio e gas di Eni crescerà del 3,5 per cento entro il 2025. Insomma, da qui ai prossimi cinque anni la compagnia partecipata dallo Stato italiano, firmatario dell’Accordo di Parigi, non ha alcuna intenzione di estrarre meno idrocarburi, anzi vuole aumentarne la produzione.

In seguito punterà invece tutto sul gas che, parola di Descalzi, «costituirà l’85 per cento della produzione dell’azienda entro il 2050». Peccato che il metano, come ribadito da una ricerca pubblicata nel 2019 su Science dagli scienziati Sara Mikaloff Fletcher e Hinrich Schaefer, sia un gas serra persino più potente dell'anidride carbonica in termini di riscaldamento dell'atmosfera, e che perciò rappresenti un grave ostacolo per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Un fatto che anche lo Stato italiano, principale azionista di Eni, dovrebbe tenere in considerazione se vuole continuare a presentarsi come protagonista della rivoluzione verde. 

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