Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, l’ultimo del primo anno di vita di questa newsletter! Dal prossimo sabato mattina entriamo già nella seconda stagione. Il tempo è volato ed è stato anche lentissimo, perché denso, pieno di eventi che hanno drenato la nostra attenzione e la nostra capacità di dividerci mentalmente tra le emergenze.

Innanzitutto: grazie. E poi: in fondo ad Areale trovate, come sempre, il mio indirizzo e-mail. Sono curioso di sapere come è andato per voi quest’anno di newsletter, cosa ne avete tratto, se è stata utile, e soprattutto cosa migliorereste, cosa cambiereste, cosa desiderate trovate in futuro in Areale. Questa è una cosa che facciamo insieme. Nel frattempo: cominciamo.

Leggere la guerra come un enigma energetico

Le crisi vanno lette e decifrate come si fa con un enigma, ogni emergenza è un codice da decrittare e insieme una nuova lezione sul futuro, da comprendere e imparare. Uno dei fronti aperti di questa guerra, che entra nella sua quarta settimana di combattimenti, stragi e sofferenza, è quello della transizione energetica. In un certo senso, questa è anche una guerra contro la transizione energetica.

Il dominio delle fonti fossili prova a imporsi ancora sul mondo, con i suoi tempi, le sue logiche, la sua cartografia e i suoi leader. Ogni giorno la Russia riceve 700 milioni di dollari per il suo petrolio e 400 milioni di dollari per il suo gas: ne ricava un quarto dell’intero budget da paese invasore, ed è anche un contributo, un obolo, alla crisi climatica.

Oggi non possiamo ancora sapere se sarà l’ultima delle grandi guerre combattute per o con il petrolio o il gas, però una delle domande ancora senza risposta, codice dell’enigma da decifrare, è se l’invasione della Russia in Ucraina può accelerare o rallentare la transizione verso un’energia pulita e a basse emissioni. La verità è che ancora non sappiamo nemmeno questo, e che i due esiti contrapposti hanno entrambi delle possibilità. Proviamo a ragionarci.

Lo scenario della libertà

Queste settimane hanno fatto più per le ragioni della decarbonizzazione che sei rapporti dell’Ipcc nell’arco di decenni. Hanno dissolto le ambiguità e chiarito il campo di gioco. Come mi ha detto il ricercatore in policy ed energia Marco Giuli: «La Russia ha fatto di tutto per rovinare la reputazione del gas come energia di transizione». Non c’è nessuna «transizione» col gas, né nel procrastinare una dipendenza a tempo indeterminato. La guerra ha mostrato il tipo di incastri e di pericoli che ci sono nel navigare la geografia del fossile.

Le fonti rinnovabili di energia sono il pilastro del mondo nuovo, oggi più che mai. La principale ragione verso la transizione è sempre stata: sono pulite, non inquinano, servono a combattere il riscaldamento globale. Una motivazione di etica intergenerazionale. Sappiamo però dal 2019 che il solare è la fonte di energia più economica che l’umanità abbia mai avuto, ma prima del 24 febbraio la convenienza sembrava ancora una ragione di retroguardia. Ora invece dobbiamo a Putin di averci mostrato cosa c’è davvero in gioco: la libertà.

Le fonti rinnovabili, vento, sole, acqua, sono libere, sono uno strumento di emancipazione. Vale per le piccole comunità energetiche, vale anche per i paesi. Ogni quota di rinnovabili che aggiungiamo al sistema si traduce in qualcosa che otteniamo liberamente e che non dobbiamo più chiedere – a carissimo prezzo – a guerrafondai, dittatori, paesi che fanno decapitazioni di massa (come l’Arabia Saudita la scorsa settimana) o schiavisti (come ci ricorderemo tutti, spero, quando partiranno i prossimi mondiali di calcio in inverno). Paesi che possono essere tali proprio grazie alla leva di questi commerci. Inoltre, la guerra ha rimesso nel dibattito il grande giacimento energetico nascosto: risparmio ed efficienza energetica.

Realismo fossile

Lo scenario alternativo è quello del realismo fossile, cioè le ragioni di chi vuole sostituire quello che smetteremo di comprare dalla Russia (come europei: due terzi del gas entro il prossimo inverno, niente a partire dal 2027) con altre fonti fossili, per la peculiare inerzia di un sistema, come quello energetico, che non è pensato o costruito per cambiare in modo brusco.

La guerra ha creato un vuoto e la domanda che ci dobbiamo fare oggi è: come lo riempiremo questo vuoto? La brutta notizia è che dobbiamo riempirlo in fretta, per proteggere l’economia e la ripresa post pandemica, per evitare che dilaghi la povertà energetica, per la tenuta stessa delle società europee.

La fretta non sempre permette di prendere decisioni strategicamente sensate a lungo termine. La corsa al gas liquefatto che arriva via nave e deve essere rigassificato va in questa direzione: una buona parte di quello russo che sostituiremo in Europa arriverà via nave, soprattutto dagli Stati Uniti (50 miliardi di metri cubi all’anno).

Ci sono segnali diffusi che il realismo fossile potrebbe uscire vincitore dalla guerra: per esempio date le difficoltà di Biden a portare avanti la sua agenda climatica. Erano già grandi prima dell’invasione russa, con l’inflazione per il costo delle materie prime (e della benzina), il climate president rischia di aver finito lo spazio politico per i piani ambiziosi che celebravamo un anno fa. E quest’anno ci sono le elezioni di midterm, sulle quali non sembra spirare un vento favorevole né al presidente né alla lotta ai cambiamenti climatici come priorità.

L’esito peggiore possibile per questa guerra sarebbe questo: cambiare fornitori senza cambiare metodo o pensiero, e pensare che l’emergenza clima può attendere, perché ora dobbiamo occuparci di altro. Visto dall’interno delle nostre menti, e dall’ottica della nostra fragile economia dell’attenzione, è senz’altro così. Ma – come diciamo spesso qui – l’atmosfera è l’unica realtà e se ne frega della nostra economia dell’attenzione.

Le prime conseguenze della guerra per la diplomazia sul clima

Un’altra domanda che dobbiamo iniziare a farci è: che conseguenze avrà la guerra sulla diplomazia per il clima? La lotta multilaterale ai cambiamenti climatici è fondata sulla cooperazione tra diversi (e spesso tra nemici), sulla creazione di uno spazio di dialogo tra i paesi e i blocchi autonomo rispetto alle tensioni geopolitiche su confini, risorse, commercio.

Questa guerra è scoppiata a quattro mesi da Cop26 e a otto dalla prossima conferenza, Cop27 che si terrà in Egitto. Il dialogo tra i blocchi per una riduzione coordinata delle emissioni di gas serra era già in crisi dopo la conferenza sul clima di Glasgow, ora sembra proprio evaporato, completamente fuori dal tavolo. Che dialogo si può creare in un contesto così? Intanto il 5 marzo il ministero ucraino dell’Ecologia e delle risorse naturali ha ufficialmente chiesto l’esclusione della Russia da quattordici trattati e convenzioni internazionali sull’ambiente, da quella contro il buco dell’ozono a quella contro la desertificazione.

Tra tutte le richieste di esclusione, quella che ha fatto più scalpore è quella di un’espulsione russa dalla United Nations Framework Convention on Climate Change, la convenzione Onu per la lotta ai cambiamenti climatici. Vorrebbe dire l’uscita della Russia dall’accordo di Parigi, un evento che avrebbe conseguenze e reazioni a catena devastanti.

Le ragioni dell’Ucraina sono comprensibili. Nel documento scrivono che la Russia, dopo l’aggressione del 24 febbraio, non ha più la credibilità per fare parte di nessun accordo internazionale: citano i combattimenti nella zone di esclusione di Chernobyl e la cattura della centrale nucleare di Zaporizhzhya, che hanno «messo a rischio la sicurezza ambientale dell’umanità». Inoltre, «portando avanti un’invasione su larga scala dell’Ucraina, l’occupante ha violato la legge internazionale, i diritti umani, la sicurezza nucleare e la pace globale».

È improbabile e al momento fuori da ogni orizzonte che la Russia venga cacciata dalla Convenzione Onu sui cambiamenti climatici e sollevata dagli obblighi dell’accordo di Parigi, ma la richiesta è un segnale di come la cooperazione tra le parti rischi di diventare un miraggio.

Il blocco negoziale Umbrella, che comprende i paesi sviluppati non Ue (Australia, Canada, Giappone, Islanda, Israele, Nuova Zelanda, Norvegia, Ucraina e Usa) ha già espulso la Russia e la Bielorussia. Queste settimane di guerra avranno conseguenze a lungo termine sulla fragile geografia dei negoziati, che negli ultimi anni si era strutturata potendo contare almeno su un contesto di relativa pace tra i paesi più importanti. Serviranno risorse nuove per uno scenario nuovo: il mondo di Cop27 sarà molto diverso da quello raccontato a Glasgow.

C’è da dire che il contributo della Russia alla lotta al riscaldamento globale era già scarso prima della guerra, secondo la piattaforma di analisi Climate Action Tracker. L’obiettivo di Putin è una neutralità climatica al 2060, con una riduzione dell’80 per cento delle emissioni al 2050, ma non c’è nessun allineamento tra target e policy, quindi questi sono solo obiettivi sulla carta.

Alla Cop26 di Glasgow la Russia è stata uno dei paesi più attivi nell’ostacolare risoluzioni ambiziose e si è tenuta fuori anche dagli accordi presi a margine del negoziato principale, come quello sull’azzeramento della deforestazione al 2030 o il Global Methane Pledge sulla riduzione delle emissioni di metano. D’altra parte, le cose non andrebbero meglio se la Russia fosse cacciata dai negoziati, non solo perché oggi è il quarto paese al mondo per emissioni totali di gas serra, ma anche perché l’uscita forzata della Russia potrebbe spingere altri paesi a fare altrettanto.

L’algoritmo anti-grandine per proteggerci in volo

I cambiamenti climatici stanno influenzando anche il traffico aereo (oltre a esserne influenzati, ovviamente, a causa delle emissioni dei voli). È una conseguenza lineare: l’aumento della probabilità di eventi meteo estremi (grandine, grandi quantità di pioggia in periodi di tempo molto brevi, raffiche di vento anomale, alta frequenza di fulmini) ha conseguenze sia sul flusso del traffico aereo in generale (cancellazioni e ritardi, per capirci) che sulla sicurezza dei singoli voli.

Un evento recente che spiega bene tutto questo è avvenuto con il volo Emirates partito da Milano Malpensa per New York JFK il 13 luglio dell’anno scorso e costretto a un atterraggio di emergenza per un’improvvisa grandinata sopra il Lago d’Orta in Piemonte, poco dopo il decollo. Tutto è stato condotto in sicurezza, senza feriti tra equipaggio e passeggeri, ma l’aereo, dopo l’atterraggio, si presentava come in queste foto, e non è l’aspetto che volete abbia un aeroplano sul quale viaggiate (ed è un aereo colossale, un Boeing 777).

Riuscire a migliorare la capacità di previsione di questi eventi estremi e improvvisi è una sfida per l’aviazione civile e in Italia ci sta lavorando la Fondazione Cima, un ente privato di pubblica utilità, fondato dal dipartimento della protezione civile, e specializzato nel rischio ambientale (con tantissimi progetti anche all’estero).

Ne ho parlato con il direttore dei programmi meteo di Fondazione Cima, Antonio Parodi, che mi ha presentato Sinoptica, un algoritmo di previsione che permette una visione ad altissima risoluzione di quello che succederà nel cielo intorno agli aeroporti, concepito per permettere ai piloti di navigare (e soprattutto evitare) le tempeste improvvise della crisi climatica e risparmiare ai passeggeri situazioni come quelle del volo Emirates.

«Il lavoro parte perché la commissione europea ha chiesto di usare le conoscenze modellistiche e osservative che abbiamo per migliorare la previsione a breve termine, da sei a dodici ore, e a brevissimo termine, fino a un’ora». L’ottica di progetti come questo è innanzitutto la riduzione del rischio, cioè sapere in che punto preciso e in che momento si svilupperanno fenomeni estremi per aggirarli, se sei un pilota, o prepararti, se sei la protezione civile. E poi c’è una ragione più economica, di sistema: Sinoptica permette non solo di evitare turbolenze da incubo al decollo e all’atterraggio, ma anche di ridurre i tempi di collegamento da punto a punto, di minimizzare i ritardi, di evitare gli sprechi di carburante e di ridurre quindi le emissioni e i costi.

«I modelli attuali ci permettono di prevedere grandinate come quella che ha colpito il volo Emirates solo su aree di 20 km di lato». Venti km per un aereo in volo è tanto, è un’informazione troppo vaga per avere la certezza di aggirare una tempesta e l’alternativa rischia di essere non decollare o decollare in ritardo. Ma se potessi sapere l’esatta localizzazione della tempesta? Con gli strumenti di oggi l’immagine risulta ancora sfocata. Ed è qui che interviene il risultato raggiunto dal lavoro di Fondazione Cima con il progetto Sinoptica, che può prevedere su un’area spaziale molto ridotta, con un anticipo fino a sei ore (contro la mezz’ora degli attuali radar), grandinate, tempeste, fulmini e raffiche di vento.

È già in parte usato dalla protezione civile ed è pronto a essere parte delle previsioni degli aeroporti, ma per questa fase servono ancora sperimentazioni, valutazioni di costi e soprattutto potenza di calcolo. Insomma, se vi eravate chiesti come cambia l’esperienza del volo con il riscaldamento globale. sì, cambia, ma anche in questo caso stiamo provando ad adattarci.

Scienza senza voce, un nuovo contributo: le responsabilità dei media

Due numeri fa di Areale avevo scritto una riflessione sul ruolo che deve avere la comunicazione scientifica nel far passare bene il messaggio di rapporti drammatici come quello dell’Ipcc sull’adattamento, in un modo che siano spendibili in un dibattito pubblico e politico. In sintesi: scrivevo che la scienza del clima deve ancora imparare a farsi capire e ascoltare come richiesto dalla crisi.

Dopo il bel contributo di Elena Saggioro, è arrivata un’altra riflessione interessante. Me l’ha mandata Francesco Gonella, docente di fisica sperimentale all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Eccola.

«L’Ipcc è stato creato con un compito ben preciso, redigere rapporti di valutazione sulle conoscenze scientifiche relative al cambiamento climatico, ai suoi impatti, ai rischi connessi, e alle opzioni per la mitigazione e l’adattamento. Ogni rapporto consta di diverse migliaia di pagine, è accompagnato da riassunti tecnici e da brevi riassunti esplicitamente destinati ai decisori politici dei paesi delle Nazioni Unite, nei quali le informazioni sono condensati per punti essenziali. Ogni rapporto è redatto da quasi 1000 scienziati e i risultati sono basati sulla revisione critica di svariate migliaia di lavori scientifici pubblicati, e sono a loro volta soggetti, prima della stesura finale, a due fasi di revisione da parte di diverse centinaia di altri scienziati indipendenti esperti del settore, nonché da parte di esperti dei singoli governi. Di fatto, gli interlocutori dell’Ipcc sono i governi, non il pubblico. È compito dei governi comunicare i contenuti convertendone il linguaggio. Molti “riassunti commentati” dei rapporti Ipcc sono delegati ad agenzie o istituzioni (in Italia, ad esempio, sommari leggibilissimi sono prodotti dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici o si possono facilmente trovare in molte riviste, blog, siti specializzati). Quella che manca totalmente è la capacità dei mass-media di farsi carico della questione comunicativa. Giornali e tv sono miserabilmente incapaci di riportare notizie che non siano d’accatto, e in ogni caso la (scarsissima) comunicazione è affidata a giornalisti quasi sempre del tutto ignoranti di quello dicono. È senz’altro vero che la necessità dell’Ipcc di gestire e individuare il consenso globale di una comunità che produce decine di migliaia di report scientifici all’anno si traduce in un documento di scarsissima fruibilità diretta, ma secondo me il problema non sta (o sta solo parzialmente) nell’attività della scienza. Ciascuno è padrone dei tool tecnici della propria professione, e se la scienza non viene comunicata correttamente credo che il problema sia soprattutto nei comunicatori. Tutti a parole sono d’accordo sul fatto che il problema del cambiamento climatico è immensamente complesso. Perché non dovrebbe essere complessa anche la sua descrizione? Non ho soluzioni. Quello che dici è senz’altro vero, ma credo vi siano tanti aspetti che remano contro una narrativa scientifica efficace. In un mondo dove per ogni astronomo ci sono 100 astrologi, non è che la scienza abbia molte armi retoriche».

Epilogo

Siamo arrivati alla fine di questa newsletter, ci salutiamo con un po’ di bellezza. Sono usciti i vincitori del concorso fotografico World Nature Photography Awards, una buona occasione per dedicare del tempo ben speso a meravigliose foto di animali carismatici di ogni taglia.

Quelle che mi hanno colpito e che condivido: la vincitrice nella sezione Animal Portrait, scattata da Tom Vierus, che ritrae dei macachi ma anche come a volte ci si sente o vorrebbe sentire nella vita.

E poi questa spettacolare interazione tra elefanti colta da William Fortescue e opportunamente intitolata Rumble in the Jungle.

È tutto, ci sentiamo la prossima settimana. Per comunicazioni, messaggi, auguri o critiche scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani invece dovete scrivere a lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

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