Pellegriti e Izzo furono incriminati per calunnia. Nel processo che ne scaturì, Izzo, interrogato dal giudice istruttore, rivelò in parte come erano andate le cose. Lui e Pellegriti avevano avuto vita facile per incontrarsi in carcere fuori dalle ore di socialità permesse e per accordare lo strumento della loro pretesa impunità
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Non è solo questione di giusto o di sbagliato, di garanzie e diritti umani, trascurati e offesi, se non accantonati quando non sospesi del tutto, in nome di un’emergenza che è il risvolto della perenne inadeguatezza repressiva e preventiva fatta di metodo e continuità. Ma è questione di portata degli effetti.
Un falso pentito, una confessione estorta, una verità spiattellata, e magari concordata, per ingraziarsi chi si ha di fronte è una bomba a orologeria innescata nel processo, pronta a esplodere a distanza di anni, quando la giustizia finirà con l’avere solo una vaga parentela col diritto, lasciando l’acre sapore della sconfitta, la fumosa consapevolezza di essersi avvicinati al vero, sfiorandolo appena.
Anche questo è il contrappasso delle trattative.
In carcere, ad esempio, fu costruito il colossale depistaggio che doveva mandare a monte il pentitismo, quando il giudice Giovanni Falcone, solo contro tutti, nell’autunno dell’89, a pochi mesi dal fallito attentato dell’Addaura del 21 giugno di quell’anno, lasciò a cuocere nel loro mefitico brodo le dichiarazioni del sedicente pentito Giuseppe Pellegriti, sapendo che una sola di quelle parole, messe insieme a tavolino nel carcere di Alessandria con il massacratore del Circeo Angelo Izzo a fare da docente, avrebbe distrutto anni di lavoro sui collaboratori di giustizia, quelli veri. Pellegriti aveva parlato dei grandi delitti di Palermo: quello del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario regionale del Pci Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Aveva addossato al “nero” Giusva Fioravanti l’omicidio Mattarella, fatto i nomi dei presunti killer degli altri e tirato in ballo come mandante per Dalla Chiesa il parlamentare dc Salvo Lima.
Da sole, tutte quelle rivelazioni offrivano su un piatto d’argento una verità che metteva insieme mafia e terroristi neri.
Lasciava in ombra responsabilità ad alto livello e salvava più di un responsabile. Una polpetta avvelenata in piena regola. Quando fu chiaro che si trattava di una colossale menzogna, Pellegriti e Izzo furono incriminati per calunnia. Nel processo che ne scaturì, Izzo, interrogato dal giudice istruttore, rivelò in parte come erano andate le cose. Lui e Pellegriti avevano avuto vita facile per incontrarsi in carcere fuori dalle ore di socialità permesse e per accordare lo strumento della loro pretesa impunità. Gli era bastato sostenere che dovessero scrivere la biografia di Pellegriti. Avevano così beneficiato di due ore di tranquillità, dalle 10 alle 12 di ogni giorno, in quella estate dell’89, per poter costruire il falso in tutta tranquillità.
Dissero che avevano fatto tutto da soli, raccontarono di aver messo insieme suggestioni e ricostruzioni dei giornali, e tanto fu sufficiente per evitare di interrogarsi sull’esistenza di eventuali suggeritori. Sui nomi di chi aveva orchestrato il sabotaggio dall’interno, di quanti avevano avuto libero accesso al carcere, convincendo i due dell’opportunità di confezionare quelle note che sarebbero state musica per le orecchie di qualche giudice frettoloso e dell’opinione pubblica in affannosa attesa della sinfonia perfetta.
Fu quello il primo colossale attacco subdolo allo strumento del pentitismo, nel momento in cui Falcone era contemporaneamente bersaglio di una minaccia al tritolo, di una campagna di delegittimazione per screditare la sua attività e di una manovra per demolire lo strumento di indagine principe che aveva costruito con Buscetta, Contorno e Marino Mannoia.
Un baco, i falsi pentiti, capace di far impazzire il sistema: non possiamo uccidere tutti i collaboratori esistenti, né impedire che ne nascano di nuovi, si saranno dette le “menti raffinatissime” cui il giudice attribuiva la responsabilità dell’attentato dell’Addaura; allora forse possiamo provare a far saltare il banco, infiltriamo falsi collaboratori e mandiamo a monte tutto.
Un piano che in quella occasione fu sventato, ma che le mafie e i loro suggeritori non hanno mai abbandonato, rispolverandolo e aggiornandolo tutte le volte che se ne è presentata l’occasione.
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