Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


Sono in auto con uno degli ispettori della Catturandi, su una delle Fiat Stilo a gasolio che abbiamo in noleggio a lungo termine e dobbiamo stare “in zona” senza compiti particolari, se non quello d’essere in grado di raggiungere rapidamente Corleone nel caso ci fosse necessità di un pedinamento.

Le macchine a gasolio non le sopporto e non le ho mai sopportate fin da bambino, mi fanno venire la nausea; ho pure un inizio di mal di gola, fa freddo e il collega che è con me, alla guida, fuma il sigaro, il cui odore si mescola e si sovrappone a quello del gasolio bruciato.

Sono frullato dalle curve: stare in zona significa che non puoi stare fermo, perché fermarsi da qualche parte è il miglior modo per farsi notare, anche se stai su una Stilo grigia, che da quelle parti pare sia il mezzo di trasporto più diffuso.

Piove alla assuppa viddanu, passiamo il tempo andando da un paese a un altro, esplorando trazzere sconnesse e fangose; due soste in qualche bar fuori mano, dove non parlo neppure: che ci fa un romano, a metà gennaio, nelle campagne della provincia palermitana? Il tempo non vuole passare, fa buio presto, prestissimo, ma dobbiamo comunque restare fuori.

Ci si racconta la vita, le esperienze e le aspettative, poi si ricomincia, e poi di nuovo e ancora, ma alla fine si tace. Ho già scritto dell’importanza della pazienza? In certe occasioni il tempo non passa davvero mai. A sera torniamo, non abbiamo ricevuto nessuna telefonata per tutto il giorno: scendiamo a valle accompagnati da un senso di inutilità, scandisco ogni tornante con ripetuti colpi di tosse.

Per una sera anche una piccola stanza d’albergo ha il sapore di casa. Il giorno 20 torno a Roma, e arrivo in ospedale giusto in tempo: sta nascendo il mio primo nipote, che ha avuto la pazienza di aspettare e sapermi presente nei dintorni prima di affacciarsi al mondo.

Il fattore umano

Quand’è che succede? Non lo ricordo con precisione, e per una volta non posso indicare il giorno preciso, ma è a cavallo tra gennaio e febbraio. Siamo alle telecamere, come sempre, in una serata di routine: Giuseppe è andato a trovare Angelo Provenzano a casa, si trattiene all’interno pochi minuti poi esce.

In mano ha un sacchetto da supermercato abbastanza grande, con i manici legati a fiocco. Passa davanti ai contenitori della spazzatura, raggiunge la sua macchina parcheggiata poco più avanti, apre il cofano e ripone il sacchetto all’interno, mette in moto e va via.

È qui che succede, qui qualcuno si pone la domanda: perché non ha gettato il sacchetto nella spazzatura quando è passato davanti al contenitore? In qualsiasi indagine le microspie registrano conversazioni, le telecamere riprendono e documentano tutto ciò che accade, i server memorizzano ogni suono e ogni immagine, ma non servono a niente fino a quando un umano non si pone una domanda, anzi la domanda. Accade tutto in fretta: riprendiamo in mano le registrazioni precedenti e vediamo che anche altre volte Giuseppe, quando ha un sacchetto con sé, lo mette in macchina, e sempre nel cofano.

Perché? Dove va? Recuperiamo le localizzazioni del Gps, che ci dicono che va a casa. Cerchiamo analogie: cosa fa il giorno successivo a quando esce dalla casa di Provenzano con i sacchetti? Non emergono coincidenze, né comportamenti ripetuti. Beh, se porta i sacchetti a casa magari restano a casa, e la traccia che ci serve è lì che la dobbiamo cercare.

Serve un posto idoneo, lo troviamo in un edificio in costruzione che guarda la casa dei Lo Bue: ma è lontano, ci vuole una telecamera buona, che costa di più. La Procura ci autorizza, la installiamo. Aspettiamo. Siamo fortunati: già al primo sacchetto vediamo Giuseppe arrivare e infilare l’auto nel box che si apre sulla strada; prende il sacchetto, apre il baule della macchina del padre accanto alla sua e lo ripone all’interno.

La cosa si ripete nelle settimane seguenti, ma le telecamere non ci possono dare altro. Bisogna rischiare qualcosa in più: è il turno del poliziotto cacciatore. La sera del 17 marzo da casa Provenzano esce un sacchetto che viene messo da Giuseppe Lo Bue nell’auto del padre.

Dalla prima mattina del 18 noi abbiamo due auto a Corleone; nel pomeriggio Calogero esce in macchina, gira un po’ in paese, poi incontra per pochissimi secondi un uomo che viaggia a bordo di un’altra vettura; riusciamo a prendere la targa: è di Bernardo Riina; i due si dirigono fuori paese con le rispettive automobili, ma è impossibile seguirli senza farsi scoprire.

Abbiamo, netta, l’impressione di essere vicini, anzi vicinissimi. I nostri sospetti sono confermati da quello che ascoltiamo al telefono: quando Bernardo Riina e Calogero Lo Bue si devono incontrare, gli accordi vengono presi dai rispettivi figli, come se si trattasse di un incontro tra i due ragazzi, e invece a incontrarsi sono i genitori. Pensiamo tutti che Bernardo Riina sia l’ultimo tramite, preparo una richiesta per intercettare i telefoni della famiglia; Renato Cortese la porta in procura, ma me la riporta indietro. – Tienila in sospeso – dice. – Pignatone e Prestipino non la vogliono fare, quest’intercettazione. Almeno per ora – aggiunge. Stento a crederlo, ma Cortese, paziente, mi spiega. – Troppe volte siamo stati vicini a prenderlo, e troppe volte, quando eravamo vicini come ora, è successo qualcosa. Dopo tutto dei telefoni di Riina non abbiamo bisogno, se è davvero lui l’ultimo anello… L’intercettazione di un telefono è una faccenda riservata, sulla carta, ma in pratica lo viene a sapere un sacco di gente, oltre a noi che ascoltiamo e ai magistrati che la dispongono o la autorizzano. Lo sanno all’ufficio intercettazioni, lo sa la Telecom, lo sanno tutti i gestori delle compagnie telefoniche, lo sa la società che fornisce i server, il software e l’hardware che ci consentono di ascoltare, registrare e riascoltare.

È vero che conoscono solo il numero di utenza e non l’intestatario, però… Per un momento mi sembra un eccesso di prudenza e di diffidenza, ma mi viene subito in mente Falcone, quando nel 1989, nel teatro dell’Istituto Superiore di Polizia ci invitava a non parlare neanche per radio. E aveva ragione lui, allora, come adesso hanno ragione i magistrati che vogliono andare avanti con decisione, sì, ma anche con la massima cautela.

Chi si guardò, si salvò, si dice, e in effetti per rimanere latitante 43 anni magari non basta solo la furbizia da viddano. Chiudiamo Corleone in un cerchio di telecamere, vediamo verso quale trazzera si dirige Bernardo Riina quando esce dal paese dopo essersi incontrato con Lo Bue, mettiamo un’ulteriore telecamera che guarda tutta la zona dall’alto. Qualche giorno e sappiamo dove va: nella masseria di Giovanni Marino, in Contrada Montagna dei Cavalli.

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