L’Argentina ha deciso di cambiare strada e lo ha fatto in maniera forte, quasi traumatica, perché con Javier Milei alla presidenza ha scelto il salto più audace di tutta la sua storia democratica.

Un outsider nuovo in politica, come ultimamente se ne sono visti ovunque in occidente, è vero, ma con un programma che dalla Casa Rosada di Buenos Aires nessuno aveva davvero mai proposto: l’economista spettinato vuole chiudere con decenni di welfare all’argentina, la democrazia consociativa sulla quale si fonda il peronismo, con l’obiettivo di mettere fine a una storia costellata di crisi economiche, default e inflazione, che lasciano il paese sudamericano sempre con un piede nel secolo passato.

La scelta degli elettori di spaccare l’esistente è forte anche nei numeri. Il leader dell’estrema destra liberista ha distanziato al ballottaggio il peronista Sergio Massa di oltre dieci punti, il 55,7 per cento contro il 44,3. Milei insomma ha fatto il pieno del forte sentimento contro il fallimentare governo uscente, raccogliendo quasi tutti i consensi che al primo turno erano andati alla moderata Patricia Bullich, la terza collocata.

Nessuno sconto

Molti osservatori, soprattutto fuori dall’Argentina, si erano chiesti come fosse possibile che l’avversario di Milei fosse Massa, cioè il ministro dell’Economia in carica di un governo che ha accumulato il 128 per cento di inflazione all’anno e polverizzato la moneta nazionale. Gli elettori hanno dato la risposta: chi voleva cambiare e mandare a casa i peronisti si è turato il naso e ha scelto una figura che in altri tempi sarebbe stata impresentabile. L’onda di domenica ha travolto i sei punti di vantaggio che Massa aveva conseguito al primo turno, un ribaltone non frequente.

Nel primo discorso dopo la vittoria, nella notte di Buenos Aires, Milei è apparso tranquillo e misurato, evitando le parole forti dei suoi comizi e l’iconografia della motosega, cioè il desiderio di tagliare tutto ciò che è statale e pubblico, a favore della libertà individuale e di impresa. Ma ha ribadito che non farà sconti.

«Finisce oggi il modello dello stato onnipresente e che impoverisce la gente a favore di una casta che si spartisce il bottino», ha detto, «La situazione dell’Argentina è gravissima e non c’è spazio per il gradualismo o le mezze misure». Milei ha ammonito il governo uscente di non mettersi di traverso durante la fase di transizione (il suo mandato inizia il prossimo 10 dicembre) e ribadito la sua promessa più audace: riportare l’Argentina a essere una potenza mondiale in 35 anni, riconquistare quel posto di paese ricco dei primi del Novecento, «il quale non dovevamo mai perdere».

Marcia indietro

Sulla carta, nel programma del Milei anarcocapitalista e libertario, come ama definirsi, c’era la tabula rasa dell’Argentina kirchnerista degli ultimi vent’anni, dove si stampano soldi a profusione per pagare programmi sociali e sussidi alle tariffe.

In principio Milei aveva proposto un governo minimo con la privatizzazione di tutto, comprese scuola e sanità, l’eliminazione dei sussidi, e infine la dollarizzazione completa dell’economia, con l’abolizione della banca centrale e la sparizione del peso.

Poi c’erano le proposte tipiche della destra, come la libertà all’acquisto delle armi e la restrizione dell’aborto. In realtà, nel corso della campagna elettorale, Milei è stato costretto a fare marcia indietro su gran parte dei tagli, colpito dalla rimonta peronista e dalla campagna di Massa sulla paura del salto nel vuoto. Ora che ha vinto e non ci sono più elettori da convincere, Milei può essere tentato di riproporre il programma originale, ma non è detto che sia una buona idea.

Senza maggioranza

Il neo presidente non avrà maggioranza nel Congresso, dove i peronisti ancora prevalgono, e poi dovrà imbarcare nel governo i centristi e i moderati di destra che lo hanno appoggiato nel secondo turno. Avrà al suo fianco come primo consigliere su tutto la sorella Karina, che lui ha soprannominato “el jefe”, il capo, e un ristretto gruppo di ministri, avendo annunciato di volerne tagliare i due terzi.

Contro avrà la potente macchina del consenso peronista che domina l’Argentina da 80 anni, i sindacati, molti governatori delle province, e, come si diceva, il grosso del potere legislativo. Avrà insomma un mestiere sconosciuto e difficile da imparare.

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