Ogni volta che comincia una giornata di Serie A, Luciano Spalletti sa che 7 calciatori su 10 non lo riguardano. Può solo desiderarli, ma senza toccarli. È diventato il suo lavoro. Guardare calcio e guardarlo col setaccio. Un tempo doveva occuparsi di metter Dzeko davanti alla porta o di dare aria agli slalom di Kvaratskhelia. Adesso deve industriarsi per cercare la manodopera tra le pieghe del campionato. Nelle prime 12 giornate di Serie A si sono visti 168 italiani su 492 calciatori utilizzati dai venti club. Il 34 per cento.

La stessa percentuale si raggiunge considerando solo quelli che hanno messo insieme almeno 8 presenze (104 su 294), ma i numeri calano in maniera drastica quando il campo della ricerca si restringe ai giovani. Sotto i 23 anni hanno giocato in 37. Diventano 21 con un minimo di 8 presenze. Il 7,5 per cento. Gli under 21 sono invece stati 26, e appena 15 utilizzati con continuità. Il 5 per cento.

È in queste condizioni che lunedì sera Spalletti ha qualificato la nazionale per gli europei dell’estate prossima in Germania, con l’ottantesimo 0-0 nella storia del calcio italiano, il risultato che nel racconto egemone viene descritto come il più coerente con le radici azzurre, ma che in passato quasi mai ha portato qualcosa di buono. Senza andare troppo indietro nel tempo, fino ai rigori mondiali con il Brasile nel ‘94 e la Francia nel ‘98, basterebbe ricordare gli 0-0 con la Svizzera e con l’Irlanda del nord, i due inciampi che ci hanno tenuto fuori dai mondiali del Qatar. Spalletti è salito sulla metro mentre chiudeva le porte. Ha avuto giusto il tempo di guardarsi attorno e capire dove stavano i comandi. Il suo vero lavoro comincia adesso e tanto farà nel periodo in cui potrà tenere più a lungo con sé i giocatori.

I primi segnali sono importanti per capire cosa sta preparando e cosa gli passa per la testa. I 74 palloni toccati in 71 minuti da Jorginho – dopo i 60 in 62 minuti di venerdì – raccontano che cercherà un riferimento costante su cui scaricare il pallone nel cuore del centrocampo, quel che è stato Lobotka a Napoli; e se Verratti nel campionato qatariota lavorasse pensando solo a questo, se corresse tra i petroldollari per tornare in forma a giugno, sarebbe una riproduzione esatta, il giocatore italiano più internazionale che ci sia.

Lì si cuce, sulle fasce si strappa (Chiesa alla Kvara) o si crea calcio dodecafonico, assecondando lo spartito contemporaneo del gioco, nel quale i terzini vanno a fare le mezze ali come Dimarco. I prossimi mesi stabiliranno se, in mancanza di un Osimhen, l’Italia avrà in prevalenza un numero nove di costruzione (Raspadori) o di sfondamento (Scamacca).

Come va altrove

È la dura vita dei cittì, non solo di Spalletti. Nella invidiatissima Premier League gli inglesi convocabili dalla nazionale finora in campo sono stati il 31 per cento. Le esigenze di competitività nelle coppe stridono con i bisogni della patria. Uno sforzo lo stanno facendo in Spagna (272 su 483, il 56 per cento) e in Germania (200 su 424, il 47 per cento), il paese dove hanno appena vinto i mondiali di basket con una misura protezionistica varata in Bundesliga. Non sono limitati i tesseramenti degli stranieri: ci sarebbero dei problemi con la Ue. Esiste però un patto fra i club per avere sempre fra i 12 iscritti a referto almeno sei tedeschi.

È una formula presente anche in Italia, sebbene non molto pubblicizzata. Nel campionato di pallanuoto esiste un gentlemen’s agreement fra società per avere in acqua almeno quattro italiani su sette. È stato uno dei cardini del progetto-rilancio scritto una decina d’anni fa con la federazione dal cittì Sandro Campagna. Ha portato al titolo di campioni del mondo, senza impedire al Recco di vincere l’Eurolega schierando in quel contesto quanti stranieri vuole. Il campionato di pallavolo attira in Italia i migliori stranieri del mondo, e la nazionale ha dovuto scovare in Serie A2 il suo attaccante titolare (Yuri Romanò). Sono le sfide complesse della modernità, nell’età della mescolanza e della circolazione dei saperi.

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