«C’erano Subranni e Basile, il capitano che poi è stato ucciso ed era l’unico che ascoltasse, l’unico con cui sono riuscito a dialogare. Dicevo che non si trattava di un attentatore ma di una persona che portava avanti una battaglia ed era stato ucciso. Dissi che c’era stata una simulazione. Mi fu chiesto in che modo potessi dimostrarlo»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per un mese pubblichiamo ampi stralci della “Relazione sul Caso Impastato”, elaborata dal Comitato della Commissione Parlamentare Antimafia della XIII° Legislatura, sull’uccisione di Peppino Impastato
«C’era la sensazione che non si volesse cercare la verità, almeno come primo tentativo. Anche noi l’abbiamo notato subito. Ripeto che nessuna domanda è stata fatta su altre cose, si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta» (dall’audizione di Salvatore Riccobono fatta dalla Commissione in Palermo il 31 marzo 2000).
«C’erano Subranni e Basile, il capitano che poi è stato ucciso ed era l’unico che ascoltasse, l’unico con cui sono riuscito a dialogare. Dicevo che non si trattava di un attentatore ma di una persona che portava avanti una battaglia ed era stato ucciso. Dissi che c’era stata una simulazione. Mi fu chiesto in che modo potessi dimostrarlo, ma io risposi che non potevo dimostrare niente. Però erano dieci anni che lo frequentavo. Mi si contestò che lì c’erano i fili, c’era la macchina, c’erano i cavetti telefonici ma erano quelli che servono per attaccare le trombe all’amplificatore e al megafono. L’unico che avesse dei dubbi era il capitano Basile si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta». (dall’audizione di Piero La Fata, fatta dalla Commissione in Palermo il 31 marzo 2000).
In questo contesto viene profilata la nota tesi dell’attentato terroristico coniugato ad un proposito suicida. Tesi che resiste agli esiti negativi di un grande numero di perquisizioni nei domicili di giovani compagni di Impastato alla ricerca di armi e esplosivi e che resiste anche agli esiti negativi dei rilievi effettuati a bordo della Fiat 850, ove, come si è visto, non viene trovata alcuna traccia di esplosivo.
Tesi, infine che resiste agli esiti del tutto divergenti, degli esami testimoniali degli stessi amici di Giuseppe Impastato, proseguiti incessantemente fino alla stesura del rapporto del 10 maggio.
Esami che indicavano la matrice mafiosa dell’evento e fornivano evidenti spunti investigativi, evocando con chiarezza i contenuti salienti dell’impegno politico dell’Impastato nella denuncia dell’esistenza di un traffico internazionale di stupefacenti, nella denuncia degli interessi economici e delle attività criminali facenti capo ai mafiosi operanti nella zona, dal capofamiglia Gaetano Badalamenti, a Finazzo ai proprietari del camping Z 10 (tra i quali tale Giuseppe Lipari) e ad altri, nella denunzia di campi paramilitari fascisti nel territorio di Cinisi, nella denuncia di rapporti tra personaggi mafiosi ed esponenti delle istituzioni, compresi carabinieri.
Giovanni Impastato, nel corso della sua audizione ha ricordato che: «... In quel periodo c’era un buon rapporto tra i mafiosi locali e i carabinieri della caserma di Cinisi. Pare che lo stesso Badalamenti fosse molto stimato dai carabinieri in quanto persona precisa, tranquilla, che amava il dialogo. Sembrava quasi che facesse loro un favore giacché a Cinisi non succedeva mai niente e poteva ritenersi un paese tranquillo.
Semmai eravamo noi i sovversivi che rompevano le scatole. Era questa l’opinione dei Carabinieri. Quando mi capitava di parlare con qualcuno di loro – cosa che non accadeva spesso perché non avevo troppa fiducia – mi rendevo conto che l’opinione diffusa era che Tano Badalamenti fosse un galantuomo e che noi invece fossimo quelli che rompevano le scatole.
Russo Spena Coordinatore. Perché non aveva fiducia in loro?
Impastato. perché determinati fatti non mi portavano ad avere fiducia nei loro confronti. Vedevo che spesse volte andavano sotto braccio con Tano Badalamenti e i suoi vice. Non si può avere fiducia nelle istituzioni quando si vedono i mafiosi a braccetto con i carabinieri.
Russo Spena Coordinatore. Praticamente i Carabinieri cammina- vano nel corso del paese a braccetto con Badalamenti.
Impastato. Sì, lo posso confermare. Non so se posso portare delle foto. Forse esiste qualche foto di Peppino che lo confermi. In ogni caso i rapporti con la caserma dei carabinieri erano molto evidenti. Lo dicevano loro stessi. Badalamenti aveva rapporti diretti con il capitano dei carabinieri Russo, perciò si figuri se un maresciallo non doveva stimare Badalamenti. Desidero solo chiarire la situazione. Ma anche Peppino denunciava questi fatti nei comizi. Affermava che esistevano rapporti diretti fra mafia e carabinieri anche a Cinisi ».
Eppure le indicazioni dei giovani erano state esplicite e coraggiose:
Marcella Adriolo Stagno aveva ricordato le denunce dei mafiosi locali fatte dall’Impastato e, in particolare la circostanza che quest’ultimo «indicava Gaetano Badalamenti quale capo della mafia locale, nonché in privato quale corriere della droga» e pubblicamente citava «tale Finazzo, costruttore edile del luogo», quale «speculatore edilizio».
Fara Iacopelli aveva definito le frasi del manoscritto «come uno sfogo puramente personale». Concetto approfondito da Giuseppe Maniaci, che aveva spiegato il fraseggio adoperato in esso come espressione di una « posizione critica [...] in seno all’area del collettivo », aggiungendo che «nonostante la crisi di sconforto che l’Impastato aveva» di non ritenerlo fallito.
E Maria Fara Vitale e Graziella Iacopelli, a loro volta, avevano ritenuto «di nessun valore di nessun peso le frasi scritte», e, dopo avere ricostruito il senso politico esistenziale delle divergenze insorte in passato nel gruppo facente capo a Radio Aut, erano state concordi nell’escludere qualsiasi proposito suicida.
«La lotta aperta alla mafia locale ... sul piano dell’informazione e della controinformazione, consistente nella pubblica denunzia dei danni derivanti al territorio dalle speculazione edilizia» e il «preciso riferimento» a Gaetano Badalamenti e ai due ex sindaci Orlando e Pandolfo erano stati poi richiamati da Andrea Bartolotta.
Mentre Giovanni Impastato aveva parlato esplicitamente di omicidio mascherato da evento terroristico.
Questi appena citati – come tutti gli altri giovani amici dell’Impastato – indicano ai carabinieri la pista mafiosa, contribuendo anche a chiarire taluni particolari, come quello dei cavi rinvenuti nell’auto, comunemente adoperati per collegarvi un impianto di amplificazione della voce nel corso della campagna elettorale.
E tutti concordemente evidenziano la circostanza, non secondaria, che quella tragica sera dell’8 maggio avevano inutilmente atteso Giuseppe Impastato nella sede di Radio Aut per le 21, ove era stata fissata un’assemblea in vista dell’importante e atteso comizio di chiusura della campagna elettorale che il loro amico avrebbe dovuto tenere l’indomani.
Ma dal successivo ricordo dei giovani di quegli interrogatori emergono anche elementi che ne descrivono la tensione: Vitale Maria Fara, ricorda «un senso di sfiducia» per la conduzione delle indagini.
Piero La Fata, dinanzi al Comitato Impastato, dice testualmente: «L’interrogatorio fu così forte e duro che non ressi. Mi contraddissi ma, di fronte a quella lettera, non avrei potuto reagire che in quel modo: la lettera era di Giuseppe, non l’avevo mai letta e non sapevo nemmeno della sua esistenza. L’impatto emotivo fu forte» [...] furono piuttosto duri e pressanti. L’interrogatorio durò più di tre ore, da circa le 10 del mattino fino all’una [...]».
«Non posso negare che in quel particolare contesto quell’interrogatorio abbia avuto una sua logica. Dovete anche tener presente che non si può sottostare ad un interrogatorio pressante per troppe ore parlando di tutto: o si parla di cetrioli o si parla di fave. Loro misero tutto insieme. Sottostando a molte ore di interrogatorio – non so se a voi è mai capitato – ad un certo punto si perde lucidità e non si riesce più a capire nulla, non si è più in grado di riflettere. Non ero e non sono un robot. Ho i miei limiti».
E Salvatore Riccobono, a sua volta ricorda: «All’indomani della morte di Peppino, gli inquirenti portarono me e altri amici di Giuseppe in caserma dove fummo tutti tartassati e trattati da terroristi», e, richiesto di precisare il contenuto di tale affermazione, aggiunge: «Ho usato il termine «tartassati» perché una stessa domanda ci fu rivolta frequentemente ed è la seguente: «perché stavate facendo l’attentato?». Noi dovevamo affermare per forza che avevamo fatto l’attentato, o che lo stavamo facendo e che era andata male avendo Peppino perso la vita. Questo è il senso. La domanda venne rivolta parecchie volt».
Le affermazioni del Riccobono impongono al Comitato un approfondimento, e nuovi particolari vengono alla luce:
Micciché. Del famoso biglietto scritto da Peppino Impastato, con cui avrebbe fatto capire in qualche maniera che si sarebbe potuto suicidare, lei ne era a conoscenza?
Riccobono. No, l’ho già detto, ma credo anche nessuno dei miei amici o compagni. Era una cosa scritta tempo prima. Si sarà trattato di un momento di sconforto come ne abbiamo avuto tutti noi ragazzi che abbiamo fatto una certa militanza. Lui l’ha scritto, noi no, ma credo che non si debba dare molto peso ad una cosa del genere.
Micciché. In quel momento lei ritiene che gli inquirenti attribuirono troppo peso a quel biglietto?
Riccobono. In un secondo tempo si.
Micciché. No, chiedevo all’inizio dei fatti.
Riccobono. Certo, hanno dato molto peso a quel biglietto. Noi diciamo che per non indagare in una direzione si è trovato il modo per indagare su altre strade.
Micciché. La sensazione era che si trattasse fin dall’inizio di una forma di depistaggio? L’idea che vi siete formati man mano che uscivate dall’interrogatorio, dopo aver parlato tra voi, era che si trattasse di un depistaggio immediato?
Riccobono. C’era la sensazione che non si volesse cercare la verità, almeno come primo tentativo. Anche noi l’abbiamo notato subito. Ripeto che nessuna domanda è stata fatta su altre cose, si diceva solo che noi eravamo attentatori e basta.
Russo Spena Coordinatore. Lei intende dire che non hanno posto domande sulla mafia locale?
Riccobono. L’unica domanda sulla mafia è stata fatta quando il carabiniere voleva i nomi.
Russo Spena Coordinatore. In sostanza solo quando lei ha affermato che poteva trattarsi di un attentato di stampo mafioso le hanno chiesto di dire i nomi.
Riccobono. Io – come tutti gli altri – feci loro presente che Peppino aveva diffuso volantini, presentato denunce e fatto comizi contro la mafia. In qualche modo tutti noi invitavamo gli inquirenti ad indagare in quella direzione. Fu allora che il carabiniere che svolgeva l’interrogatorio, piuttosto arrabbiato e sbattendo una mano sulla scrivania, ci chiese di fare i nomi.
Micciché. Quindi si passò immediatamente alla tesi di un attentato da parte del vostro gruppo e poi a quella del suicidio. Da quel momento aveste la sensazione che la pista della vendetta mafiosa fosse del tutto accantonata e non venisse neppure sfiorata come ipotesi?
Riccobono. sì.
Figurelli. Ricorda qualche testimonianza di quei giorni circa le perquisizioni effettuate in paese? In sostanza, ricorda se, quanto e in quale direzione, subito dopo la morte di Impastato, la stazione dei Carabiniere indagò tra i mafiosi o tra quelli che in paese erano ritenuti fiancheggiatori della mafia o comunque uomini legati ai capi mafia?
Riccobono. Le uniche perquisizioni furono fatte in casa mia, in quella di La Fata, di Giovanni Impastato e nella casa in campagna di Manzella Benedetto. Sull’altro versante non furono fatte perquisizioni. Furono perquisite solo le case dei compagni di Peppino».
Nessun atto di polizia giudiziaria risulta infatti indirizzato nei confronti di soggetti a qualsiasi titolo riconducibili agli ambienti mafiosi oggetto delle denunce di Giuseppe Impastato e dei giovani facenti capo a Radio Aut. E ciò anche se, già all’indomani dell’evento mortale, era emerso un quadro netto e distinto dell’importanza dell’opera di «controinformazione» svolta dall’Impastato e del livello delle sue denunzie.
Dovranno purtroppo passare da allora ancora molti anni per conoscere l’entità degli interessi criminali denunziati da Giuseppe Impastato, a partire dal fenomeno del trasporto dello stupefacente a mezzo di corrieri e dall’insediamento territoriale delle raffinerie dell’eroina che a far tempo dal 1977/78 consentirono a Cosa nostra di lucrare centinaia di miliardi l’anno. così come per conoscere e valutare l’importanza degli investimenti di Cosa Nostra nel settore turistico e alberghiero e nella gestione delle cave.
Con il deposito del rapporto giudiziario del 30 maggio del 1978 a firma del maggiore Subranni, viene ribadita l’ipotesi che «Impastato Giuseppe si sia suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico, così come si ritiene che non sia emerso alcun elemento che conduca ad una diversa conclusione.
E ciò malgrado i conclamati rinvenimenti nel casolare, la totale assenza di indizi circa l’esistenza di attività terroristiche in Cinisi, la mancanza di ogni traccia circa la disponibilità e l’attitudine all’impiego di esplosivi da parte della vittima e la perfetta consapevolezza della portata dell’attività di denuncia degli interessi mafiosi effettuata dall’Impastato e rievocata anche dagli organi di stampa dopo la sua morte.
Nessuna perquisizione nei confronti di mafiosi. Nessuna richiesta di intercettazioni telefoniche.
Né il pubblico ministero, durante i 181 giorni in cui tratta direttamente l’inchiesta, effettua o delega approfondimento o un’indagine sulle persone, sui fatti e sulle specifiche circostanze che prima Peppino Impastato e poi i suoi amici avevano avuto il coraggio civile di denunciare.
E dopo il 30 maggio nessuna attività investigativa del reparto operativo dei carabinieri di Palermo sulla morte di Giuseppe Impastato viene riferita all'autorità giudiziaria, tanto meno quella, espressamente delegata e rimasta senza esito, volta a ricostruire natura e provenienza dell’esplosivo.
Solo, e inaspettatamente, il 9 gennaio 1979 il comandante della stazione dei carabinieri di Cinisi trasmette al giudice Chinnici una nota avente ad oggetto «Cinisi – decesso di Impastato Giuseppe».
Il maresciallo Travali, venti giorni dopo avere reso testimonianza al giudice Chinnici, invia il verbale delle «sommarie informazioni testimoniali» da lui acquisite dal tale Salamone Benedetto, «operaio delle ferrovie addetto al servizio di passaggio a livello sito al km. 30+745, distante dal punto dove avvenne l’episodio circa 750 metri».
Due osservazioni devono precedere l’esame delle informazioni rese dal Salamone. In primo luogo, non vi è traccia in atti di alcuna delega da parte del giudice istruttore all’assunzione di questa testimonianza. Sicché – almeno formalmente – l’atto va ascritto all’iniziativa investigativa del Travali, così come l’espresso riferimento ad una potenziale utilità di questa nuova testimonianza all’inchiesta, anzi «ai fini dell’inchiesta» in ordine al decesso dell’Impastato.
Nell’iniziativa sembra implicita una apertura inusitata a direzioni dell’indagine diverse da quelle perentoriamente affermati nei rapporti presentati ai magistrati dal comandante del reparto operativo del gruppo dei Carabinieri di Palermo.
In secondo luogo, anche nei suoi contenuti, l’esame del Salamone appare di sicuro interesse perché focalizza l’attenzione sul passaggio a livello del km. 30.745 poco distante dal luogo ove Impastato saltò in aria, posto, come si sa al km. 30.180. Cioè a poco più di 500 metri di binario.
Un punto che potenzialmente poteva o doveva essere attraversato per giungere alla trazzera ove fu ritrovata la Fiat 850 dell’Impastato. Salamone ricorda che, rispettivamente alle ore 22.30 e alle 24 circa, due treni passeggeri erano transitati senza inconvenienti e che fino alla mezzanotte nessuno aveva segnalato problemi alla linea. Ed esclude di avere notato quella notte qualcosa di anomalo nel presidio del passaggio a livello, le cui sbarre restavano abbassate – particolare interessante – per circa sette minuti ad ogni transito.
Su questo il Salamone sembra preciso: «Durante le operazioni di apertura e chiusura delle sbarre non ebbi modo di notare persone o macchine che si trovassero dietro le sbarre stesse in attesa che venissero riaperte». Solo al passaggio del locomotore delle 1,35 del 9 maggio, diretto da Palermo a Trapani era accaduto qualcosa di inconsueto. Il locomotore dopo aver superato il casello per circa 50 metri si era fermato ed era tornato indietro e il conducente lo aveva informato che sulla linea ferrata aveva notato qualcosa di anormale, tanto da indurlo ad ispezionare al lume di lanterna circa 100 metri di binario, rimasta senza alcun esito. Solo alle 3 di quella notte l’operaio specializzato Vito Randazzo aveva rilevato sulla linea « l’ammanco della rotaia e nessun altro oggetto».
Ad una specifica domanda dei verbalizzanti (brigadiere Esposito e maresciallo Travali), il casellante Salamone riferisce di non aver udito «alcun rumore da attribuire a qualche esplosione» e di «non avere visto aggirarsi nei paraggi del casello o sulla strada vicina comunale ... persone di Cinisi, di Terrasini o estranei». Quanto alla mancata percezione dell’esplosione, il Salamone fa presente che «quella notte, sino all’una circa, vi era un forte vento di scirocco che soffiava da Trapani versoi Palermo», che aveva allontanato l’eco o altri rumori».
L’effetto che il Salamone intende – o meglio pretende – descrivere è quello di un mascheramento acustico dell’esplosione a causa della forte sciroccata. L’assunto non appare supportato da alcun valido riscontro: basta considerare che quella notte il traffico aereo non aveva subito intralci per le condizioni atmosferiche, come dimostra la ricostruzione del traffico aereo in arrivo e in partenza da Punta Raisi richiesta dal giudice Chinnici.
Il teste Salomone non viene mai più interrogato su queste circostanze.
Ma durante la sera dell’8 maggio e la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 Benedetto Salamone non era stato l’unico ad essere in servizio in quel passaggio a livello. Alle ore 22 aveva dato il cambio alla collega Provvidenza Vitale. Fino a quel momento quindi il passaggio a livello era stato presidiato dalla Vitale, la quale secondo il Salamone, non segnalò alcuna « anomalia inerente al servizio di vigilanza al passaggio a livello ».
Ma – come riferisce il Travali a Chinnici riservandosi di trasmettere il verbale dell’esame della Vitale – questa casellante, nata a Cinisi, aveva lasciato il paese perché emigrata verso gli Stati Uniti.
Come si è detto in precedenza, non si conoscono i motivi di tale trasferimento né risulta alcun atto istruttorio che abbia coinvolto la Vitale, potenziale teste oculare. Anzi, fatta eccezione della nota di trasmissione del verbale delle sommarie informazioni testimoniali rese dal Salomone, il nome della Vitale non comparirà mai negli atti processuali.
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