Nel 1988 Falcone, insieme con il pm Gioacchino Natoli e il procuratore capo Pietro Giammanco, è già andato a interro gare Franco Di Carlo in Inghilterra: si sono scambiati mezze frasi e allusioni. Ciascuno ha rimarcato il proprio ruolo, ma Franco Di Carlo non ha ceduto di un millimetro. Non intende collaborare
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Nel 1988 Falcone, insieme con il pm Gioacchino Natoli e il procuratore capo Pietro Giammanco, è già andato a interro gare Franco Di Carlo in Inghilterra: si sono scambiati mezze frasi e allusioni.
Ciascuno ha rimarcato il proprio ruolo, ma Franco Di Carlo non ha ceduto di un millimetro. Non intende collaborare. In Italia, però, il fascicolo sul suo conto si arricchisce di nuovi spunti e sono in tanti a doverlo interrogare. Sempre in quell’anno un altro giudice va a Londra.
Dopo alcuni mesi che erano venuti Falcone, Natoli e Giammanco, arriva a me e al mio avvocato inglese John Zani (oggi giudice di un tribunale di Londra) un avviso ufficiale nel quale mi si avverte che, per rogatoria internazionale, alcuni magistrati italiani chiedevano di interrogarmi. Questa volta a venire erano il giudice istruttore Giuseppe Di Lello e il pubblico ministero Giuseppe Ayala.
Conoscevo solo quest’ultimo per averlo visto sia di persona che in fotografia. Era un cliente del Castello e ricordo che le prime volte che venne si presentò agli addetti all’ingresso come cugino del principe Alessandro di San Vincenzo. Il personale mi aveva messo al corrente, chiedendomi anche come dovessero regolarsi; incuriosito andai a vedere di persona e non riconobbi il magistrato tra quelli che abitualmente frequentavano casa dei San Vincenzo, tuttavia lasciai che entrasse senza difficoltà.
Successivamente, dopo il mio arresto, due investigatori inglesi vennero da me con una foto che ritraeva delle persone sedute a tavola in un locale. Mi chiesero se io conoscessi alcuni di loro e in particolare due che erano più in primo piano. Dissi che conoscevo il luogo in cui era stata scattata la fotografia, trattandosi del Castello, e che le persone che erano ritratte le conoscevo solo come clienti.
Mi chiesero anche se i due fossero assieme e io, ricordando come erano disposti i tavoli, glielo esclusi categoricamente. Non collaboravo ancora, ero molto lontano da quell’idea, ma ritenni giusto dire la verità. Le due persone ritratte erano Michele Greco e un giovanissimo Giuseppe Ayala.
I due investigatori inglesi intendevano redigere un verbale ma io mi opposi, dicendo che non c’era nulla da dichiarare. Tanto zelo mi indusse a ritenere che fuori dal carcere doveva esserci qualcuno venuto dall’Italia, interessato a tornarsene con qualche elemento per incastrare Ayala, utilizzando poco più che una maldicenza.
Quando Di Lello e Ayala vanno in Gran Bretagna stanno occupandosi dell’inchiesta italiana nata dall’arresto di Franco Di Carlo e che porterà negli anni a venire a un nuovo processo conclusosi, dopo un iter tortuoso, con la pronuncia del ne bis in idem.
Mi trovavo nel carcere di Leicester. I due magistrati erano venuti per interrogare sia me che i due miei coimputati italiani, italiani per modo di dire perché uno era nato in Inghilterra, mentre l’altro risiedeva a Londra da molti anni, sposato con una donna inglese dalla quale aveva anche molti figli e nessuno dei due aveva nulla a che spartire con la criminalità, né tanto meno con Cosa Nostra.
Erano, come si dice, due piscitteddiri cannuzza [due pesci di scoglio, che si pescano con la canna, due persone di poco conto nel gergo criminale]. I magistrati vengono da me il giorno dopo che erano stati a interrogare questi due che si trovavano in prigione in due diverse città. Abbiamo conversato un po’ in un clima cordiale, tenuto conto delle circostanze, ma era mia abitudine presentarmi in modo gentile e devo dire che comunque incontrare degli italiani era pur sempre piacevole, nonostante si trattasse di magistrati venuti lì non certo per farmi una cortesia.
Altra cosa però è rispondere alle domande, flettere rispetto alla linea del silenzio: negare sempre, non ammettere nulla, anzi, se è possibile neppure aprire un dialogo sui temi processuali. Per molto meno si rischiava di venire uccisi.
Un segno di disponibilità era interpretato come un segno di cedimento e Franco Di Carlo, anche per rimanere all’altezza del ruolo che aveva guadagnato, non poteva permettersi il lusso che trapelasse all’esterno il solo sospetto che potesse accettare di rispondere alle domande dei magistrati italiani.
In un paio d’ore, esauriti i preliminari e non avendo risposto formalmente a nessuna delle domande, finimmo l’interrogatorio. Se non ricordo male, fu allora che Ayala mi disse che fuori ad attenderli c’era un funzionario della polizia italiana. Io allora gli chiesi: e perché non è entrato? E lui mi rispose: non è voluto entrare, non lo so, non capisco neanch’io perché.
Lì per lì non diedi molto peso alla cosa, ma certo mi sembrò strano che una persona venuta apposta dall’Italia per una rogatoria non si fosse presentata all’interrogatorio di quello che veniva considerato il personaggio centrale dell’indagine. Capisco che ognuno può fare quello che ritiene più opportuno, ma certo se quell’assenza era collegata ad altre intenzioni, è tutto diverso.
Il particolare del mancato incontro rimane sospeso, ma non per molto tempo.
Con i miei due coimputati mi scrivevo regolarmente ogni settimana per parlare del più e del meno. In una di queste lettere sia con l’uno che con l’altro abbiamo parlato dei magistrati che erano venuti dall’Italia e loro mi scrivono che insieme con i magistrati c’era un chief della polizia italiana.
È la conferma di quanto Franco Di Carlo aveva già appreso da uno dei magistrati venuti a interrogarlo, ma i coimputati aggiungono un particolare non da poco. Quel poliziotto non è un funzionario qualunque, incaricato magari delle incombenze spicciole di una rogatoria, bensì un “capo” della poli zia, e questo rende ancor più strano il suo comportamento.
In effetti la circostanza mi lascia molto perplesso; tuttavia tra scorre del tempo, non ricordo esattamente quanto, prima che io possa capire cosa c’è dietro.
Non gli occorrerà molto per chiarirsi le idee.
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