Non mangiare niente di solido, fare digiuno totale, immaginare di mangiare invece di farlo effettivamente e tutto per ragioni di salute. È il paradosso che sta al centro di Club Zero, film in arrivo nelle sale italiane il 9 novembre, in cui una insegnante di una scuola privata introduce i suoi studenti al culto del riduzionismo estremo, abituarsi a mangiare sempre meno fino ad arrivare al niente, con l’obiettivo di stare meglio ed essere persone migliori.
La sua teoria è che sì possa comunque sopravvivere attraverso la concentrazione sul cibo che può sostituire la sua assimilazione. È un film grottesco e paradossale che usa molto l’umorismo per raccontare questa storia di cattiva informazione, di false credenze e disinteresse dei genitori nei confronti del mondo dei figli. Soprattutto, la cosa più interessante è che usa il cibo.

Contro ogni evidenza

Il cibo è la lingua condivisa di questi anni, la lente attraverso la quale conosciamo e soprattutto raccontiamo quello che accade nel mondo. Quando in Club Zero si parla di cibo in realtà si sta parlando di altro, si sta parlando di come ci informiamo, delle cose a cui scegliamo di credere contro ogni evidenza scientifica, del distacco generazionale, delle differenze di classe e via dicendo.
E si usa il cibo perché molto della cultura contemporanea passa per il cibo. Ci passano le lotte ambientaliste, ci passa l’evoluzione tecnologica (la carne sintetica), ci passa lo spiritualismo, l’idealismo e ci passano le ambizioni sfrenate di successo, come racconta la centralità che ha assunto la figura dello chef nell’immaginario collettivo della personalità di successo.

Del resto è un segnale anche il fatto che a Club Zero, un film austriaco, è successa una cosa che forse una volta non sarebbe capitata a una commedia grottesca di questo tipo: è stato selezionato in concorso all’ultimo festival di Cannes (aiutato dal fatto che la sua autrice, Jessica Hausner, già era stata a Cannes). Ne è uscito senza premi ma è chiaro che quel tipo di discorso ha cittadinanza nel salotto intellettuale più prestigioso.
Girato con lo stile rigoroso e appassionato di armocromie e simmetrie di Wes Anderson, ma scritto con il furore satirico di Ruben Ostlund (il regista di Triangle Of Sadness, palma d’oro a Cannes), in Club Zero ci sono tutti i temi cruciali del nostro tempo organizzati intorno al concetto di alimentazione, cioè il cibo non solo come qualcosa di necessario a vivere (e vivere e morire ad un certo punto diventa cruciale nel film) ma come il terreno di scontro intellettuale della società.

In Ladri di biciclette l’esigenza di lavorare era la maniera per parlare dei problemi del dopoguerra, in Il sorpasso il rapporto tra uomini era un modo per parlare della società uscita dal Boom, ora tocca al cibo. Parte di questo è frutto della moda che ha investito la cucina, ma è anche chiaro che i temi che per anni sono stati discussi in circoli ristretti sono diventati adesso di interesse mondiale. L’ambientalismo e un rapporto sano con l’allevamento forse sono l’esempio più evidente e facile, ma molto altro di quello che parliamo quando parliamo di cibo è parte di discussioni a tutti i livelli.

Lo scontro

Nel film i ragazzi che non vogliono conformarsi al culto del non mangiare di più discutono con quelli che invece ne sono adepti, e quello che si dicono e su cui si scontrano non è diverso da quello che si dicono persone che credono nella scienza e persone che credono nell’antiscienza, chi crede nella politica e chi professa la necessità di un’antipolitica, chi coltiva il dubbio con tesi divergenti da quelle imperanti e chi ha fiducia nei mass media.
Tutto nel film avviene a partire dal cibo, dalle teorie su come dovremmo mangiare, ai problemi che esistono sull’educazione alimentare e a quelli legati alla filiera.
Perché se un’altra cosa la dice correttamente Club Zero è che le notizie false o le credenze prive di basi funzionano e attecchiscono quando hanno una base reale, cioè quando nascono da problemi reali e documentati o da veri nodi irrisolti della società. Nascono dalla ricerca ignorante di soluzioni impossibili e subitanee.

Alla fine quello che fa Club Zero è satira, va così nell’assurdo da usare la commedia per prendere in giro la tracotanza dei ricchissimi, il distacco dalla realtà e l’esigenza di prendere posizioni per ribadire il proprio status “impegnato” (l’unica famiglia non abbiente del film sarà anche quella con la madre più ragionevole e con i piedi per terra). Trova nelle questioni alimentari e nella maniera in cui, da quel punto di vista, i ragazzi sono abbandonati dalle famiglie (che non notano niente, nemmeno che smettono di mangiare), il punto di un rapporto malato con il cibo che indica un rapporto malato con quello che la società propone.

Certo il film non lo fa con il massimo della sapienza filmica e con molta faciloneria, è innamorato della sua tesi e pensa solo a quello, a compiacere lo spettatore. Ma è dimostra anche quello che intendiamo quindi quando parliamo della dimensione intellettuale che ha assunto la cultura del cibo.
Non solo la maniera in cui si è allargato lo spettro della speculazione intorno alla cucina, alla coltivazione e poi al consumo, ma anche la maniera in cui il cibo è entrato nel discorso pubblico in maniere in cui una volta impossibili.

Il cinema e la serialità televisiva ne sono l’epifenomeno, lo notiamo ora che i film si riempiono di chef, di scene a tavola, di alimenti usati per ricordare un tempo andato, per mandarsi messaggi di amore, per sbloccare snodi di trama, per dare un tono a una scena oppure come in questo caso per aprire le porte a un discorso più ampio.

© Riproduzione riservata