Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


L’estate del ’69, superati gli esami, io di licenza media, mio fratello di quella liceale, venne il momento di trasferirci a Roma, dove sarei diventato adulto. Mia madre aveva preferito che terminassimo l’anno scolastico, prima di fare il trasloco.

Già da alcuni mesi, mio padre lavorava alle Botteghe Oscure, la direzione nazionale del Pci, che prendeva il nome dall’omonima via al centro di Roma. Il toponimo aveva prevalso sulla funzione. Infatti, nel linguaggio comune, dai funzionari che vi lavoravano agli iscritti, dai giornalisti agli altri partiti, sino alla gente comune, Botteghe Oscure era sinonimo di Pci. Quando, negli anni Novanta, la sede fu lasciata e venduta, a seguito della cura dimagrante alla quale il Pci e, poi, il Pds si erano sottoposti per rimettere in sesto le proprie finanze, anche il vocabolario della politica ne subì le conseguenze.

Quell’anno, mio padre non aveva chiesto di partecipare al programma di scambio tra delegazioni. Mia madre aveva insistito perché, dopo essere stati insieme in Urss, Yugoslavia, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia, avrebbe voluto fare una vacanza al mare in Italia. Così trascorsi con loro due settimane a Panarea. Mio fratello c’era stato con gli amici e ce l’aveva raccomandata. Stavamo in due camere in famiglia e l’ultimo giorno, giunto il momento di pagare, a mio padre mancavano 10.000 lire per saldare il conto, se non ricordo male, di 45.000 lire. Per fortuna l’affittacamere aveva fiducia in lui e gli fece credito. Prima di rientrare a Roma, ci fermammo a Napoli. Papà voleva approfittarne per fermarsi ad incontrare Salvatore Cacciapuoti, storico dirigente meridionale del partito.

Due anni prima, l’11 giugno del 1967, si erano tenute le elezioni regionali e il Pci aveva perso il 2,8 per cento. A seguito di quella sconfitta, ritenuta sonora e non so se oggi sarebbe considerata tale, mio padre lasciò la carica di segretario regionale e, come si diceva un tempo, fu chiamato dalla direzione del partito a incarichi nazionali: vice di Gerardo Chiaromonte nella Commissione Meridionale, di cui divenne responsabile, dopo esserlo stato di quella agraria. Mamma, dal canto suo, dava il suo volontario contributo alla Sezione femminile del partito.

Nel 1972 venne eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte delle Commissioni Bilancio e programmazione, Agricoltura e Foreste, di quella per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno ma, soprattutto, della Commissione Antimafia.

Mio fratello si iscrisse a Medicina ed io al liceo classico. Fu Paolo Bufalini a suggerire a mio padre il Visconti, il liceo dove venni iscritto e maturai le mie prime esperienze politiche e di vita. Bufalini mi chiamava “lo storico”, perché gli avevo detto che storia era la materia che mi piaceva di più: lui mi aveva preso sul serio e mi incoraggiava ad ogni occasione.

Erano gli anni del movimento studentesco, nato nel ’68, ed io, dopo una breve esperienza nella sinistra extraparlamentare, abbandonata per ambienti e discussioni, a mio sentire, troppo fumosi, mi iscrissi alla Fgci, la federazione giovanile comunista, dove sono cresciuto con alcuni dei futuri leader politici della sinistra, compresi quelli che, poi, hanno scelto la destra. All’inizio, il Pci era stato preso in contropiede da quel movimento, che tacciava di estremismo, “malattia infantile del comunismo”, come recitavano i sacri testi dell’ideologia marxista. La Fgci fungeva da testa di ponte, ufficiale di collegamento con i tanti giovani impegnati nella battaglia per il rinnovamento, non solo del sistema scolastico ma dell’intera società, che davano vita ad organizzazioni extraparlamentari, così definite, perché non avevano rappresentanze in Parlamento. Per questo ruolo, la Fgci subiva critiche da parte della dirigenza “adulta” del Pci, con la quale si misurava a testa alta.

Allo stesso tempo, ricordo gli attacchi lanciati dagli extraparlamentari, che definivano la Fgci riformista, la peggiore accusa che un’organizzazione comunista potesse subire. Ricordo quel periodo come la mia fase della formazione, un’età straordinaria per ricchezza di esperienze, alla quale debbo molto di quello che sono diventato. Mio padre mi osservava, almeno questo io avvertivo, ma non interveniva, tranne quando era richiesto, cosa che io facevo, ogni tanto, magari per attaccare una posizione assunta dal Pci, che criticava le scelte del movimento degli studenti o della stessa Fgci. Lui argomentava, spiegava i motivi delle scelte e delle decisioni.

In genere, controbattevo, anche quando intuivo che potesse avere ragione, per poi riportare, senza citarlo, le sue opinioni alle riunioni della Fgci e, in quelle sedi, capitava di riscontrare consenso. Essere figlio di mio padre mi esponeva a critiche: un uomo di destra, compagno di quelli di destra e, per di più, un riformista, cui seguivano conseguenti richieste di chiarimenti: chiedilo a lui!

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