I tedeschi hanno un’immagine ben definita di un esercito in ritirata: convogli stracarichi ma ordinati, basi consegnate alle autorità civili, parate rispettose che nascondono malamente la sconfitta dell’occupante. Gli elicotteri in fuga dai tetti delle ambasciate sono robe che vanno bene per l’alleato americano – qui si preferisce la dignitosa evacuazione delle truppe russo-sovietiche dalla ex Germania Est nel 1994.

Forse è per questo che il ritiro dall’Afghanistan è stato accolto in maniera così spenta, sia fra gli oppositori che dai sostenitori della guerra più lunga della storia repubblicana. A onor del vero, sono ormai anni che l’opinione pubblica guarda all’Afghanistan con stanca apatia, ripetendo inerti argomentazioni che stentano a mantenere i 1.035 soldati del contingente nella coscienza del paese. Ciò è evidente anche dalle reazioni al ritiro accelerato degli americani: sorpresa, certo, ma soprattutto rassegnazione. Annunciato inizialmente per l’11 settembre 2021 e ora anticipato al 4 luglio, la leadership del ministero della Difesa e della Bundeswehr hanno dovuto fare capovolte retoriche ardite per giustificare lo stravolgimento della tabella di marcia elaborata a inizio anno. La ministra Annegret Kramp-Karrenbauer e i suoi funzionari ripetono ormai da settimane che il ritiro non è una sconfitta e che la fretta serve per segnalare buona fede ai Talebani: non aver rispettato la scadenza di aprile posta da Donald Trump è dovuto da motivi del tutto tecnici e non da fini ulteriori.

Grosse manovre

Una giustificazione credibile, perché l’evacuazione delle forze tedesche sarà una sfida logistica titanica e richiederà l’adozione dei piani di emergenza elaborati negli anni passati in caso di un’improvvisa boutade trumpiana. Già nel 2013 i tedeschi avevano riconsegnato la base di Kunduz all’esercito nazionale afghano – il ritiro da Camp Marnak, presso Mazar-i-Sharif, sarà però un’operazione di tutt’altra scala. Si tratta effettivamente di una piccola città (nel campo vigono le regole stradali tedesche), e l’urgenza impone che tutto ciò che non potrà essere smontato o affidato agli afghani sarà distrutto, infoltendo le file di rottami sovietici e americani sparsi qua e là per il paese. L’eccezione, ovviamente, è il monumento ai caduti eretto nel cuore del campo, che sarà smontato e ricondotto in Germania.

La fine di questa parabola sarà quindi tutt’altro che spettacolare. Per le forze armate, le ultime fasi della guerra afgana si sono dimostrate una serie di episodi imbarazzanti. L’evacuazione di soldati e materiali sarà rallentata dalla scarsità di aerei di trasporto perché la Luftwaffe è attualmente impegnata con la logistica della missione Onu in Mali, rendendo necessario l’affitto di due aerei da trasporto Antonov ucraini. La recente perdita di un drone Heron ha anche ridotto ai minimi termini le capacità di ricognizione del contingente, rendendone ancora più urgente il ritiro – senza il supporto americano, infatti, le truppe tedesche saranno cieche e prive di supporto aereo.

Nessun altro conflitto contemporaneo ha avuto un impatto maggiore sulle idee, pratiche operative e considerazioni politiche con cui la Germania si approccia agli affari militari. La prima missione militare al di fuori dell’Europa ha inaugurato una nuova epoca per la politica della Bundesrepublik. Solo da metà degli anni Novanta la Germania si è vista in grado di schierare la Bundeswehr nel quadro di missioni Ue, Onu o Nato, grazie a una sentenza della Corte costituzionale che autorizza a prender parte ai “doveri e pratiche” di questi sistemi di difesa collettivi. L’attivazione da parte degli Stati Uniti della clausola di difesa collettiva della Nato e la risoluzione Onu 1386 rientrava evidentemente sotto questo ombrello: secondo l’ex ministro della difesa Peter Struck, la nuova dottrina imponeva che la difesa della Germania dovesse «avvenire anche sull’Hindukush». La Germania ha dovuto anche confrontarsi con le conseguenze inattese degli interventi armati: nel 2021, la Corte europea per i Diritti Umani ha discolpato la Bundeswehr della morte di numerosi civili, uccisi in un attacco aereo chiamato in difesa di una pattuglia a Kundus.  

Il valore di vent’anni

Dal punto di vista tattico, i vent’anni sul campo sono anche stati la principale fonte di addestramento per migliaia di soldati. Il comando di due dei cinque Provincial reconstruction teams ha effettivamente formato il corpo ufficiali della Bundeswehr. Anche il Ksk, le forze speciali oggi tristemente note per le infiltrazioni naziste, ha avuto anche il suo battesimo del fuoco lontano dalla Germania nella battaglia per Tora Bora. In queste settimane i commando si prenderanno una pausa dalle polemiche domestiche e torneranno per un’ultima missione, coprendo il ritiro dei commilitoni.

L’intervento in Afghanistan è stato anche un grande banco di prova per il Bundestag, chiamato per la prima volta a esprimersi sulla gestione di un conflitto a lungo termine. I voti per l’estensione del mandato hanno per anni rappresentato il fulcro del controllo parlamentare sulla Bundeswehr, con maggioranza e opposizione impegnati nell’elaborazione di una cultura strategica tedesca. Va detto che questi scambi hanno ormai perso gran parte del vigore che ne caratterizzavano gli inizi. Più che una riflessione politica, il dibattito di febbraio è stato uno stanco scambio di slogan completamente slegato dal contesto strategico.

Anche l’esecutivo sembra aver perso interesse per il paese. Le visite dei ministri in loco si erano fatte meno pubblicizzate e sporadiche, con l’eccezione del ministro degli esteri Heiko Maas, lanciatosi nell’impresa di preservare i finanziamenti e supporto politico occidentale a Kabul. Horst Seehofer, ministro dell’Interno della Csu, non ha addirittura mai visitato il contingente di polizia presente dal 2001 per addestrare le forze dell’ordine afghane. Forse aveva ancora in mente la visita del suo predecessore Otto Schilly, che nel suo viaggio nel 2004 regalò 122 camioncini Vw al suo omologo afgano. I veicoli furono immediatamente rubati, ripitturati e venduti da funzionari corrotti.

Ma nessun dibattito può essere sostenuto in eterno. La fine della missione Isaf nel 2013 ha segnato il calo dei minuti dedicati all’Afghanistan in parlamento, al tg, e un relegamento della missione alle terze e quarte pagine dei giornali. La fine dei combattimenti e il beret swap da peacekeeper Onu a consiglieri militari Nato nel 2014 ha azzerato le perdite del contingente. Dei 53 tedeschi morti in missione, l’ultimo caduto in combattimento risale a otto anni fa; è verosimile che l’ultimo soldato tedesco ad aver perso la vita sulle montagne dell’Asia centrale sarà un sottufficiale morto suicida nel 2019. Questo calo di perdite è probabilmente dovuto anche ad accordi presi con i Talebani, che secondo Reuters si sarebbero impegnati a difendere le basi della coalizione contro militanti dello Stato islamico e della rete Haqqani.

Da qui, forse, l’illusione di stabilità. Dal 2015, ogni dibattito riguardante il paese verte sulle pressioni della destra per deportare i rifugiati accolti in Germania un decennio prima. Che il paese possa essere anche solo lontanamente considerato un luogo sicuro dimostra quanto inconsapevole sia diventato il pubblico tedesco su quello che succede in Afghanistan. Solo il ritiro ha posto fine a questa polemica – la prossima battaglia politica riguarda infatti l’evacuazione di traduttori e collaboratori afghani della Bundeswehr, terrorizzati dalla vendetta dei Talebani.

Il ritiro dall’Afghanistan chiude definitivamente un capitolo di transizione nella politica tedesca. Non è un caso che, nel 2001, la decisione di supportare l’alleato americano fosse stata presa dal governo rosso-verde di alleanza tra Spd e Verdi di Gerhard Schröder. Insieme all’intervento furono introdotte diverse iniziative che avrebbero segnato la Krisenpolitik tedesca: un centro di addestramento e studio per le missioni di pace (Zif), un piano d’azione per la prevenzione civile e altri strumenti che oggi rendono la politica militare tedesca un unicum nel panorama europeo. Non è quindi sbagliato che la retrospettiva sull’intervento, richiesta a gran voce da buona parte dell’arco parlamentare, sarà probabilmente condotta da un governo il cui compito sarà proprio quello di scrivere un nuovo capitolo nell’impegno tedesco nel mondo. Oggi la Bundeswehr è coinvolta anche in Mali, “l’Afghanistan europeo” che pone interrogativi simili a quelli della guerra contro i talebani. Così come con gli americani in Afghanistan, l’intervento in Africa pone la Germania di fronte alla difficile scelta di supportare un proprio alleato storico – la Francia – in una missione vista con estremo scetticismo. Resterà da vedere cosa rimarrà dei 19 anni e sei mesi sull’altopiano del Hindukush.

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