In queste settimane in Germania si parla molto di Heimreisen, un lungo saggio sull’amore tedesco per l’Italia e i più famosi viaggi in Italia dei grandi intellettuali tedeschi. Il punto di partenza del libro è ovviamente la “Italienische Reise”, il viaggio in Italia di Goethe, che viaggiò fra il 1786 e il 1788 dando vita a un fenomeno durato secoli. Domani ha intervistato l’autore del libro, Golo Maurer. Lo storico dell’arte lavora a Roma come responsabile della biblioteca Hertziana, uno dei più importanti centri di ricerca in storia dell’arte della capitale.

Maurer, nel suo libro lei spiega come l’identità nazionale tedesca sia stata plasmata dall’amore per l’Italia. Come ha iniziato a interessarsi a questo tema?

Quando sono venuto per la prima volta in Italia avevo quindici anni. È stato un colpo di fulmine, e tornare in Italia è diventata un’idea fissa. Mi sono cercato una professione che me lo permettesse. All’inizio della mia carriera scientifica mi occupavo di temi completamente diversi, come i disegni architettonici di Michelangelo. Dopo qualche anno in Italia mi sono accorto di essere stato considerato “tedesco”, di avere un’identità a cui a Monaco non si fa necessariamente caso. Quindi è il tema a essere venuto abbastanza verso di me, non viceversa.

Come spiegherebbe a un italiano l’impatto del viaggio di Goethe sull’immaginario tedesco?

La cosa strana è che tutte le nazioni europee sono sempre state attirate dall’Italia. Il viaggio in Italia era una tappa fondamentale nella biografia di chi apparteneva a una certa classe sociale. La differenza nell’approccio tedesco è che per i tedeschi il viaggio e il legame con l’Italia, anche se puramente ideale, era una componente molto importante della loro identità nazionale.

Questo va forse capito nel contesto politico della Germania del 1820. Il sogno della borghesia illuminata di uno stato nazionale unificato era stato negato dal congresso di Vienna e il ritorno dell’ancien régime. Ed è qui entrano in gioco Goethe e l’Italia. Goethe ha fatto il proprio viaggio in età matura, non come un ventenne che voleva internazionalizzare un po’ il proprio curriculum come si faceva allora. A trentasette anni Goethe lavorava per il principe di Weimar come ministro, occupandosi di tanti affari di stato e non avendo però il tempo di dedicarsi ai propri veri talenti: la scrittura e la poesia.

In quegli anni si convince di aver sbagliato a non aver intrapreso il viaggio dieci anni prima, quando aveva dovuto scegliere fra l’Italia e Weimar. Nessuno gli avrebbe però permesso di abbandonare i propri incarichi politici, costringendolo quindi a preparare il viaggio in segreto e partire in clandestinità. Dal momento in cui mette piede in Italia si sente ringiovanito, ritrovando anche la sua immaginazione artistica. Quando il suo resoconto finalmente uscì nel 1816, nel pieno della delusione della borghesia tedesca per la mancata unità nazionale, gli effetti furono immediati. La narrativa di un borghese moderno, costretto a servire un governo ancora feudale e che un giorno decide di fuggire corrispondeva al dilemma dell’epoca. La Italienreise diventa allora una via d’uscita da questo dramma.

L’impressione oggi è un po’ il contrario: il viaggio Italia non è più una cosa di nicchia. Siamo passati dall’intellettuale con Goethe in tasca al turista che legge il tabloid Bild in spiaggia?

Oggi ci sono tre tipi di viaggio in Italia. Come dice Lei c’è quello della piccola borghesia che va a Cattolica e Rimini, ma anche quello diciamo “hipster” verso Roma e Firenze e che è un po’, come per Goethe, una fuga dalle brutture della Germania. La terza è una piccola minoranza, che a l’epoca era la stragrande maggioranza, cioè i residui della Bildungsbürgertum (borghesia intellettuale), che ancora cercano «il paese dove fioriscono i limoni», cioè l’Italia di Goethe.

Anche oggi molti tedeschi si sentono molto “squadrati” e senza la disinvoltura nel parlare o nel camminare che vedono negli italiani (per averne prova basta guardare come sono vestiti i politici tedeschi in confronto a quelli italiani). Questa fuga non è quindi una da turista ma piuttosto un tentativo di migliorarsi, di adottare modi di fare che si pensa appartenere agli italiani. Rimane però sempre un miscuglio fra complessi di inferiorità e senso di superiorità su questioni come l’efficienza, il trasporto pubblico…

Come cambia l’immagine dell’Italia per i tedeschi con l’Unità d’Italia e l’industrializzazione?

Già poco dopo il viaggio di Goethe il diplomatico Wilhelm von Humboldt criticava gli archeologi per aver rimosso la vegetazione che infestava le rovine romane durante gli scavi. La trovava una cosa terribile, una perdita per la nostra immaginazione ingiustificabile nonostante l’evidente necessità scientifica. E questo lo dice Humboldt, lui che praticamente da solo ha costruito il sistema universitario tedesco. Perfino lui in Italia assume un comportamento antiscientifico e irrazionale.

È in quel momento che l’Italia diventa una terra senza tempo e nella quale fuggire dalle devastazioni della modernità, che invece avanzava in Germania. Dopo Porta Pia Ferdinand Gregorovius, grande storico del medioevo romano, ha lasciato la città perché non voleva vedere la “distruzione” della sua città dalla modernizzazione: atteggiamenti che nessuno si sognerebbe di avere con Parigi o Berlino.

E quanto rimane di questa ammirazione?

Nella seconda metà del Novecento ci sono stati momenti in cui l’Italia è stata vista come modello di un miracolo economico molto più elegante del Wirtschaftswunder tedesco. Ancora oggi, se si fa un nuovo progetto in una città tedesca ci sarà sempre una piazzetta, a memoria dei modelli urbanistici italiani. Il Covid è stato interessante perché la Germania ha scoperto virtù italiane, soprattutto una disciplina della società nel suo complesso, e punti deboli della società tedesca che non erano molto evidenti, una sorta di irrazionalità e anarchia che sono costate molto alla Germania. Se si guarda all’Ottocento tedesco però si trovano le radici di questo sospetto nei confronti della tecnica, prova di un atteggiamento naif nei confronti della natura che poi in parte è sfociato nello scetticismo sui vaccini.

Quanto pesa questa nostalgia italiana sulla storia tedesca?

Altri paesi come la Francia e l’Inghilterra avevano comunque un’orizzonte globale, che considerava altre regioni del mondo. La Germania no. C’è una germanista britannica, Elizabeth Butler, che nel 1935 ha scritto un libro in cui collega il grande archeologo settecentesco Johann Joachim Winckelmann ad Adolf Hitler. La fissazione per la Grecia e l’Italia, la fissazione per il mito epico, l’irrazionalismo, per il superuomo avrebbe creato l’atmosfera intellettuale che poi ha permesso l’ascesa del fascismo.

Forse una lettura un po’ esagerata, però Goethe stesso in tarda età ha provato un’attrazione sempre più forte per l’America, come se sentisse il peso di una cultura euromediterranea in parte anche da lui inventata.

L’interesse per l’Italia sembra sempre rafforzarsi dopo le catastrofi. Pensa che ci sarà una nuova ondata di Italienreisen dopo la pandemia?

Ho potuto vedere che i miei compatrioti venire in massa nelle ultime due estati, affamati di sole. Ciò mi ha confermato l’idea che l’Italia rimane un luogo di nostalgie per i tedeschi, e da cui sono separati dalle Alpi come se fosse la soglia per entrare in un mondo opposto a quello tedesco.

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