Si può dire che i «negri» portano malattie e gli albanesi rubano e poi denunciare per diffamazione se qualcuno risponde: «Sei un idiota razzista»? Il caso è arrivato nei tribunali tedeschi, che l’hanno risolta sbrigativamente: sì, si può e chi denuncia ha ragione. Almeno a stare alla vicenda di Enissa Amani, comica e moderatrice televisiva, di recente condannata per frasi ingiuriose rivolte contro il politico di Alternative für Deutschland Andreas Winhart. I due sono quasi coetanei.

L’onorabilità dei razzisti

Winhart, siamo nel settembre del 2018, durante un comizio, non si trattiene: «Se nel mio quartiere un negro (Neger, una parola che da tempo è considerata in Germania razzista, ndr) tossisce, devo sapere che ha». È un copione noto: i migranti “portano” malattie, tubercolosi o chissacosa. Nel 2018 Afd crede ancora alle malattie infettive, cambierà idea quando arriverà il Covid e promuoverà le mobilitazioni “contro la dittatura sanitaria”. Il comizio si conclude con Winhart che se la prende con Albanesi o Kosovari, perché, ovviamente, «rubano» e figurarsi se possono lavorare nelle residenze per anziani.

Scoppia un putiferio, Winhart si scusa per aver usato quella parola, ma per il resto conferma tutto. Scattano le denunce. È la classica tempesta in un bicchier d’acqua: c’è la libertà di espressione e, secondo i giudici, non ci sono gli estremi per parlare di istigazione all’odio (come dicono in Germania Volksverhetzung).

Qui comincia la seconda parte della storia che vede protagonista proprio Enissa Amani, nata a Teheran ma crescita a Francoforte dove i suoi genitori, perseguitati politici si rifugiano. Amani vista la conclusione della vicenda, carica un video su Instagram e scrive un post su Facebook, ammettendo di non poterne più, che la situazione in Germania è critica se ancora si accettano questi toni, per poi chiosare rivolgendosi direttamente a Winhart: «Sei un bastardo razzista e un idiota». Lui, che pure è tra quelli che si lamentano dei rischi della cancel culture e del politicamente corretto, sentendosi offeso, decide di denunciare per diffamazione Amani. I giudici tedeschi accolgono la richiesta e condannano la comica.

La sfida di Amani

La pena è, tutto sommato, mite: pagare 1.800 euro, una sorta di tirata d’orecchi. Il meccanismo della giustizia, però, si inceppa: Amani non vuol saperne di pagare e, quindi, scatterebbe la pena detentiva. Vale a dire quaranta giorni di detenzione. Lei, molto attiva sui social, lo annuncia pubblicamente: non è disposta a pagare nemmeno un centesimo. Vede confermata la sua teoria: che succede in questo paese, se occorre tutelare l’onorabilità dei razzisti?

Con la sua scelta, Amani, forse meno impulsiva di quello che lei stessa voglia far credere, pone un interrogativo politico pesantissimo: lei va letteralmente in galera per aver dato del razzista a uno che da un palco aizzava contro africani, albanesi e kosovari. È giusto?

Forse, nemmeno il giudice che ha emesso la sentenza poteva immaginare questo esito. Avrà valutato le dichiarazioni di Amani, tenendo conto delle parole forti usate e anche della rabbia della influencer su Instagram arrivando a concludere che ci sono gli estremi per parlare di diffamazione: sarebbe interessante da capire se a rilevare è il sostantivo razzista o l’aggettivo idiota. Probabilmente pensava che con la pena pecuniaria la vicenda sarebbe finita qui. Invece no. Perché Amani annuncia di preferire il carcere, mettendo in imbarazzo il sistema che limita la libertà di espressione in modo quantomeno curioso.

Diritto e giustizia

Il sistema giudiziario è stato spesso individuato come la cifra della civiltà tedesca e, ancor più frequentemente, come la sua nemesi. Notissimi sono i rimproveri del giurista Gustav Radbruch dopo il nazionalsocialismo ai suoi colleghi per non aver saputo stare dalla parte della giustizia.

Come pure il conflitto tra Spencer Tracy e Burt Lancaster in Vincitori e Vinti, film del 1961, nel quale il primo è un giudice americano a Norimberga, il secondo un ex giudice del regime nazista ora imputato.

Sembrano anni lontani, ma qualcosa si avverte ancora oggi. Perché l’elaborazione del passato è una costante nella storia tedesca e le generazioni di ‘nuovi’ tedeschi contribuiscono a renderla sempre più interessante. L’attivismo dei giovani tedeschi, di terza e quarta generazione, non è più disposto a tollerare senza reagire.

È una presenza viva: lo ha scritto il sociologo Aladin al Mafaalani dell’Università di Osnabruck: «Più procediamo con l’integrazione, più aumentano i conflitti» (un suo libro, Il paradosso dell’integrazione, è disponibile anche in italiano). E non è detto che sia un male: le vittime di Hanau, ad esempio, non sono state dimenticate proprio grazie ad amici e parenti che hanno chiesto di pronunciare i loro nomi, di ricordarli.

È un attivismo che non accetta mediazioni di sorta e dalla politica vuole richieste chiare. È solo di qualche giorno fa l’ennesimo scandalo nella polizia per la presenza di estremisti di destra: Olaf Scholz aveva promesso già lo scorso anno di procedere con uno studio sul tema, da anni una richiesta di attivisti e associazioni. Chissà se si ricorderà di questo impegno quando entrerà alla cancelleria.

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