L’ultimo anno di governo di Angela Merkel ha sgretolato molte piccole e grandi certezze che sorreggono la Bundesrepublik. L’ortodossia sul budget (Schwarze Null) è stata travolta dai miliardi in aiuti anti Covid. Una cultura notoriamente sospettosa del digitale e ogni forma di sorveglianza ha bene o male accettato un balzo nella digitalizzazione della vita pubblica e un esteso contact tracing. Perfino a Berlino pagare con la carta di credito, rigorosamente contactless, non è più una roba da ricchi.

Una cosa che non è cambiata, tuttavia, è la certezza quasi religiosa che i Verdi tedeschi siano destinati a essere la forza trainante del prossimo governo federale.

Sono ormai anni che il Bündins 90/Die Grünen si trovano sulla cresta dell’onda. Un tempo forza extraparlamentare e capellona, l’esperienza di governo a inizio anni 2000 col socialdemocratico Gerhard Schröder ha “addomesticato” i Verdi, trasformandoli in un pilastro della partitocrazia tedesca.

Già dopo le elezioni del 2017 il partito è stato a un soffio dal ritorno nelle stanze dei bottoni federali come partner di Cdu e Fdp (i liberali). Ma la strada dei Verdi verso Berlino non è solo questione di aritmetica elettorale. A quattro anni dall’ennesima rielezione della cancelliera, la Germania è ormai pronta a lanciarsi in una stagione di riforme. La fine dell’era Merkel non segna solo un cambio della guardia, ma anche un impulso alla modernizzazione del paese.

Le divisioni interne

Resta da vedere se i Verdi saranno abbastanza abili – e zelanti – da mettere in atto un’agenda realmente radicale. La pandemia ha infatti rappresentato un momento di riflessione per un partito storicamente diviso fra gli eredi della sinistra extraparlamentare e ambientalisti “realisti” (i Realos). Gli avatar di queste due anime sono i leader del partito, il centrista Robert Habeck e l’idolo della sinistra Annalena Baerbock.

Lo stato d’eccezione avrà anche distratto da temi ecologici, ha tuttavia concesso una tregua mediatica necessaria per affrontare alcuni pericolosi conflitti nel partito.

La frattura corre grosso modo fra base (attivisti, gruppi regionali, le nuove leve confluite da Fridays for Future) e la leadership nazionale, ma anche fra le diverse articolazioni del partito nei Land. I Verdi in Assia, ad esempio, sono finiti nell’occhio del ciclone per aver permesso la costruzione di un’autostrada in una foresta. La combo disboscamento-trasporto su gomma ha innescato furibonde reazioni in tutta la galassia verde, costringendo perfino Berlino a disconoscere il progetto.

Questo è un caso esemplare per il dissenso fra Realos e sinistra, non solo per l’oggetto della contesa, tanto quanto per le «armonie che dividono» le correnti. Entrambe invocano infatti la responsabilità dei Verdi nei confronti della Germania e l’Europa: il Covid-19 ha indicato la necessità di un nuovo paradigma socioeconomico. Questo include capitalismo verde, uno stato sociale più generoso che inclemente, investimenti federali in infrastrutture e educazione,  un’economia basata sull’idrogeno, politica a favore dell’immigrazione e multiculturale, multilateralismo etico e femminismo, leadership by example in Europa (i Verdi sono stati fra i primi a chiedere sostegno per l’Italia nell’Aprile 2020).

Insomma, fra i Verdi è indubbio che “essere responsabili” significhi plasmare una Germania capace di navigare in un mondo globalizzato. Le differenze, semmai, riguardano le istanze in cui questo senso di responsabilità debbano esprimersi. Nel caso dell’autostrada in Assia, l’urgenza di sopperire a un buco nella rete infrastrutturale ha cozzato con la più ampia necessità di spostare la maggioranza delle merci sul trasporto su rotaia, che versa in uno stato francamente imbarazzante.

Anche il congresso federale di fine anno è stato teatro di una feroce contesa, stavolta sulla carta dei valori dei Verdi, una sorta di vademecum decennale abbastanza tipico per un partito tedesco. I rappresentanti di Fridays for Future, sotto la guida della carismatica Luisa Neubauer, si sono impuntati su un’interpretazione massimalista degli Accordi di Parigi, vincolando i Verdi al limite dell’aumento globale delle temperature di 1,5°C.

I Realos propendevano invece per un impegno più generico, preoccupati che la trasformazione ecologica dovrebbe avvenire a velocità insostenibili. Alla fine è stata raggiunta una soluzione di compromesso che descrive i 1,5°C come la “misura” della politica verde.

Una guerra all’ultima virgola? Lo sarebbe se questi scontri non avessero anche delle conseguenze tangibili nella condotta del partito. Lo strappo più drammatico è avvenuto a livello locale, nelle elezioni comunali e nella campagna per il governo del Baden-Württenberg.

L’unico governatore verde, Winfried Kretschmann, è iperpragmatico, ostile a Fridays for Future e a favore di sussidi per l’acquisto di automobili a diesel a sostegno all’industria tedesca (e del suo stato) durante la crisi. Alcuni ecologisti hanno quindi presentato liste alternative a quelle dei Verdi, provocando malumori in un partito ancora poco abituato a essere contestato.

Ma nel 2021 questi conflitti resteranno probabilmente dormienti, essenzialmente per tre motivi. Prima di tutto, i processi decisionali e la ritualità all’interno del partito fanno dei Verdi una macchina ben oliata, capace di mantenere una parvenza di consenso sotto pressione.

In secondo luogo, l’ecosistema politico di Berlino – i civil servant, i think tank, i giornali – è ormai pronti per un governo a trazione verde, fornendo ai Realos al Bundestag e alla leadership molta più expertise dei loro avversari interni. Infine, entrambe le anime dei Verdi (e a loro modo anche chiunque guiderà la Cdu) sono accumunate da una genuina volontà di riforma.

I Verdi non vogliono superare l’attuale sistema politico, sociale ed economico della Bundesrepublik, bensì aggiornarlo per il nuovo decennio. Questo vuol dire prima di tutto dare un colpo di spugna agli ultimi rimasugli della repubblica di Bonn. Il resto sono dettagli.

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