Il tedesco è famoso per la sua elegante modularità. Concetti che in altre lingue richiedono due o tre parole per essere espressi, a volte intere frasi, sono riassumibili in una bella parola composta o l’aggiunta di un piccolo suffisso. È quindi tanto più sospetto quando è necessario ricorrere a perifrasi o articolate metafore per indicare qualcosa di molto semplice. «Menschen mit Migrationshintergrund» è uno di questi termini, letteralmente «Persone con sfondo migratorio».

Certo, sarebbe sbagliato aspettarsi chissà quale poesia dal servizio statistico tedesco. La formula, coniata all’inizio degli anni 2000 per indicare individui nati all’estero o con almeno un genitore straniero, è però molto più di un artefatto amministrativo. Il termine, che sotto il quale ricade ormai più di un quarto della popolazione tedesca, è la perfetta espressione del travaglio con cui la Bundesrepublik sta affrontando la trasformazione in una società pluralista e multietnica. Cosa vuol dire avere uno “sfondo migratorio” per quei 10 milioni così definiti nonostante detengano un passaporto tedesco, spesso fin dalla nascita?

Per Moshtari Hilal e Varatharajah Sinthujan, il significato è molto chiaro. Ma a patto che esso sia accompagnato da un pendant altrettanto significativo: «Menschen mit Nazihintergrund», ovvero «Persone con sfondo nazista», per indicare tutti i tedeschi i cui antenati hanno beneficiato, in un modo o nell’altro, dall’essere cittadini del Terzo Reich. Una definizione piuttosto larga, che nell’intenzione dei due artisti serve a rispedire al mittente l’etichetta con cui si prova a distinguere su base etnica fra figli di migranti e «Bio-Deutsch» bianchi (un gioco di parole sui «tedeschi biologici», dove il prefisso “Bio” è usato in genere per i prodotti alimentari).

Può forse sorprendere che siano proprio due tedeschi a voler inchiodare i propri concittadini alla complicità dei loro antenati.  Di sicuro, molti non hanno apprezzato l’arroganza dei due artisti i cui nonni possono essere stato tutto fuorché nazisti. La ramanzina del reazionario si scrive praticamente da sola: Hilal, pittrice arrivata dall’Afghanistan ad Amburgo all’età di sette anni, può essere accusata di irriconoscenza nei confronti del paese che l’ha accolta; Sinthujan, filosofo di origini singalesi radicato in Baviera, tocca «razzismo degli antirazzisti».

La storia di una libreria

Ma la questione è, come al solito, più complessa. «Menschen mit Nazihintergrund» nasce infatti da una serie di live e discussioni lanciate da Sinthujan e Hilal in risposta a una bizzarra scoperta. Siamo a Berlino, nel bel mezzo del lockdown che molti temevano avrebbe falcidiato il mercato dell’editoria. Benché aprire una libreria sia una scelta sempre azzardata, sembrava impossibile che qualcuno avrebbe osato farlo proprio in quel periodo di incertezza (nella capitale le librerie sono state chiuse pochissimo, salvando la salute mentale del vostro corrispondente). Eppure, la temeraria Emilia von Stanger decide di buttarcisi comunque, aprendo una libreria dedicata a temi Lgbtqi+ e femminismo. I giornali, prevedibilmente, celebrano la storica impresa.

Nessuno sembra però chiedersi da dove provengano le ingenti somme necessarie per l’operazione. Ed è così che i due “figli di immigrati”, come si autodefiniscono, fanno una breve ricerca Google, scoprendo che un antenato della (nobile) proprietaria della libreria è stato un importante comandante della Wehrmacht, uno dei molti membri dell’aristocrazia reazionaria allegramente reintegrati nella classe dirigente del dopoguerra.

Von Stanger non è certo l’unica ad avere ereditato un ruolo di punta nell’élite artistico-culturale tedesca. Julia Stoschtek, un’importante gallerista, ha una storia simile, benché la sua ricchezza sia più direttamente riconducibile ai milioni fatti dal nonno producendo armi per la Wehrmacht. Entrambe sono accumunate dall’estrema riluttanza nel parlare delle loro ascendenze. Il che non sarebbe grave, argomentano Hilal e Sinthujan, se non dovessero gran parte del loro capitale finanziario e sociale proprio da quelle radici.

In Germania, in effetti, è impossibile districare la volgarità delle ineguaglianze contemporanee dal baratro della guerra. Come può esserlo quando molte ricche stirpi degli anni Trenta hanno potuto perpetuare la propria egemonia economica e culturale nella Bundesrepublik? Potrebbe essere altrimenti quando membri eversivi di esercito e forze dell’ordine si rifanno proprio alle tradizioni che hanno giurato di combattere?

Da persone ripetutamente costrette in un’identità di “diversi” rispetto ai propri concittadini, i due artisti possono identificare la crasi che esiste fra la cultura ufficiale della Bundesrepublik e la realtà sociale vissuta. La Vergangenheitsbewältigung, il superamento del passato, si basa proprio sul distanziamento delle figlie e dei figli dalla generazione dei padri, sull’imperativo categorico di impedire che quel periodo della storia tedesco possa ripetersi. È però inevitabile che quel distacco rischi di sfociare in una annoiata indifferenza, come qualcosa di ormai relegato alle pagine della storia (secondo sondaggi Zdf un quarto dei tedeschi vuole «farla finita» col nazismo).

Ciò che è interessante nell’idea di «Menschen mit Nazihintergrund» è che apre un’importante discussione sul dovere della memoria in una società in cui molti non hanno più alcun collegamento con l’eredità del nazismo, o perché sia perché si ostinano a ignorarle oppure perché di origini straniere. In fondo, è anche un invito ad abbandonare una concezione di cittadinanza identitaria che, paradossalmente, danneggia di più l’integrità morale della maggioranza bianca che quella di quelle minoranze spesso accusate di “separatismo culturale”.

Michael Rothberg, uno studioso della memoria storica, ha raccontato delle iniziative lanciate da alcune associazioni arabo-turche per organizzare visite ad Auschwitz, ripulire le pietre d’inciampo e praticare altre liturgie della memoria tedesca. Una memoria multietnica dell’Olocausto è, effettivamente, un biglietto d’ingresso per accedere alla società tedesca – esso può però anche diventare uno strumento per togliere l’alibi della responsabilità collettiva.

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