Era il 2012, si celebrava il terzo congresso della Linke e il partito fondato appena cinque anni prima (16 giugno 2007) era sull’orlo della scissione: i due leader interni, Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, erano bloccati in una contesa senza riserva di colpi. Quest’ultimo parlava di arroganza da parte dei compagni dell’ovest che gli ricordava quella patita dai cittadini dell’est subito dopo la riunificazione.

Una chiara frecciata a Lafontaine, accusato persino da Willy Brandt di non aver mai capito davvero la questione nazionale tedesca. Poi Gysi era arrivato a dire che se non c’era accordo, ognuno poteva prendere la propria strada. Lafontaine, che non aveva una maggioranza, aveva deciso di fare ammenda: «Sono tante le cose che ci uniscono. Nessun altro partito ha idee chiare come noi sul no alla guerra».

Ma perché una simile crisi, in un partito tanto giovane che aveva fatto sperare tutta la sinistra europea e tre anni dopo aver conseguito alle elezioni del 2009 l’11,9 per cento, risultato mai più raggiunto?

La contrapposizione Gysi-Lafontaine è stata utilizzata per spiegare le difficoltà e, anzi, il fallimento di amalgamare due culture politiche molto diverse. Con il primo si schieravano gli orfani del socialismo reale organizzati nella Pds, erede del partito unico comunista della Germania est Sed. Con Lafontaine il variopinto mondo dei fuoriusciti dalla Spd, che contestava le riforme di Gerhard Schröder, che al governo a inizio millennio insieme ai Verdi era intervenuto in maniera pesante e contestata sulle regole del mercato del lavoro.

I primi erano pragmatici e volevano governare, nei Land come al governo federale, gli ex socialdemocratici, invece, interessati innanzitutto a mettere fine alla fase “neoliberista” del loro ex partito di appartenenza.

Le origini

Dal loro incontro doveva nascere qualcosa di nuovo. I primi anni furono di fuoco ad alzo zero contro la Spd, rimasta al governo, nella (prima) Grande coalizione con Angela Merkel (2005-2009) e costretta ad affrontare la crisi finanziaria.

La circostanza che nel 2009 la Linke, grazie a una campagna elettorale giocata sulla provocazione e sulla distanza dalla Spd, ottenesse un buon risultato, aveva permesso di evitare la domanda per eccellenza: che Germania ha in testa questo nuovo partito? Che se ne fa di questi voti?

Lafontaine sapeva di non poter continuare a guidare il partito. Anche perché alla maggior parte degli iscritti, che veniva dall’est, le sue battaglie sembravano velleitarie. In fondo con la Spd si governava in alcuni Land e l’alternativa ai conservatori passava da una coalizione con Socialdemocratici e Verdi.

Al di là di alcune fantasie (l’uscita dalla Nato), la priorità era cambiare la maggioranza politica nel paese. E per farlo la Spd era indispensabile, bollarla di neoliberismo serviva a poco. Alle elezioni del 2013 (che alla Linke hanno regalato l’8,6 per cento dei consensi) una maggioranza alternativa a quella guidata dai conservatori, almeno aritmeticamente, era possibile, ma considerare la Spd neoliberista escludeva sin dall’inizio qualsiasi ipotesi di accordo e apriva la strada all’inevitabile centralità dei conservatori.

Anche i socialdemocratici avevano le loro responsabilità: da Berlino fecero fallire nel 2008 il primo tentativo di varare in Hessen un governo Spd-Verdi e “tollerato” dalla Linke. Mesi dopo fu destituito il presidente del partito Kurt Beck, considerato troppo “di sinistra”. Lo Spiegel fece una copertina memorabile: i nuovi vertici del partito con l’ombra del vecchio cancelliere e la scritta «il ritorno di Schröder». Giusto per far capire chi comandasse (ancora) nel partito.

Nel 2012 al congresso di Göttingen il peggio è stato evitato solo perché una scissione non conveniva a nessuno. Fu eletta una giovane presidente, Katja Kipping (insieme a Bernd Riexinger), che negli anni ha dimostrato di essere capace ma non ha mai avuto la forza necessaria di dare al partito una nuova fisionomia. Ha cercato di intercettare i nuovi movimenti sociali, le battaglie per la casa, per il salario.

Tuttavia: la Linke può sopravvivere come partito che fa (solo) vertenze per i disoccupati di lungo periodo? Va bene contrastare gli effetti perversi delle riforme, ma come si rappresenta anche il mondo che lavoro, gamba tradizionale dell’elettorato socialdemocratico e che le riforme di Schröder hanno colpevolmente diviso e messo l’uno contro gli altri? E come coinvolgere il nuovo mondo di quanti non vengono dalla classica storia “socialdemocratica”, i “nuovi” tedeschi?

La crisi dei migranti

Nel frattempo, la crisi dei migranti del 2015 metteva la Linke di fronte a una delle più grandi sfide per la società occidentale, con la cancelliera Angela Merkel che accettava di accogliere i rifugiati che si ammassavano sui confini sud-orientali dell’Europa dopo il collasso della Siria.

Lafontaine e Sahra Wagenknecht, che iniziava a profilarsi come leader con alle spalle un passato nella Pds, hanno iniziato a contestare la decisione di Merkel. Soprattutto, hanno legato la critica alle politiche europee per la Grecia alla strategia sulle migrazioni, accusando l’Europa di svuotare i paesi d’origine delle persone migliori e di produrre dumping salariale nel continente.

Secondo la loro tesi, da un lato i confini andavano chiusi per scoraggiare questi movimenti di persone e, dall’altro, sarebbe stato opportuno tornare alla centralità degli stati nazionali dire una volta per tutte addio all’Unione europea, considerata una costruzione neoliberista irriformabile. Entrambe le tesi erano contestate dalla maggioranza del partito.

I due andavano avanti a tamburo battente, più su talk show e giornali che nelle sedi di partito. Wagenknecht è stata eletta nel 2015 alla guida del gruppo parlamentare insieme a Dietmar Barsch, una responsabilità enorme nella politica tedesca. Tuttavia, ha continuato a criticare le scelte della maggioranza del partito di sostenere l’accoglienza. Lafontaine parlava di quote per ogni paese, come se non sapesse che raggiungere l’accordo in Europa sarebbe stato praticamente impossibile per una serie di veti incrociati.

Wagenknecht in congresso è stata perfino presa a torte in faccia da alcuni contestatori esterni. Ma non demorde. Sapeva di non avere la maggioranza nel partito (che Kipping aveva portato a un discreto risultato nel 2017, il 9,2 per cento) così nel 2018 ha deciso di lanciare l’idea di un nuovo movimento sociale trasversale ai partiti.

Nella Linke la reazione è stata ostile. Kipping ha precisato che «i movimenti sociali sono fatti di persone, questo è un progetto di Sahra». Wagenknecht va avanti e presenta Aufstehen («alzarsi», ndr) con alcuni membri dei Verdi e della Spd. In una conferenza stampa del dicembre di quell’anno ha svelato il piano: «I partiti (Spd, Verdi e Linke, ndr) possono aprire le liste per le prossime europee alla società civile». Tradotto: vogliamo posti in lista.

Il no dei tre partiti, scontato, ha segnato la fine del progetto, nonostante il genuino entusiasmo di alcuni. Pochi mesi dopo, Wagenknecht ha annunciato problemi di salute, non sarà più capogruppo (ma resta al Bundestag) e si prende un periodo di riposo.

Il destino 

Il resto è storia recente: Sahra Wagenknecht è tornata con un libro, con cui fa a pezzi il suo partito e una sinistra “liberale e accademica” che non si accorge dei problemi veri. In un paese che discute di razzismo (e dove per razzismo si muore) lei offre un contributo singolare: «Grazie alla sinistra la Knorr non commercializza più un sugo chiamandolo “salsa zingara”. In compenso continua a non permettere di formare dei Consigli dei lavoratori nelle sue fabbriche».

Non si capisce dove sia stata negli ultimi 15 anni e perché non abbia lavorato nella Linke per darle un profilo nuovo, lei che ne è stata una dirigente di primo piano. Il suo partito non le piace ma accetta la candidatura in Nord Reno Vestfalia, dove dovrebbe essere rieletta.

Dovendo opporsi a questa sinistra “nazionale” di Lafontaine e Wagenknecht, la maggioranza del partito ha finito per non avere più un proprio profilo: il più delle volte doveva solo smarcarsi dalle loro dichiarazioni.

Un gioco di specchi che non è stata all’altezza della sfida. Da qualche anno questa maggioranza ha fatto sua la necessità di rappresentare un’alternativa politica a livello federale, ma ormai i numeri non ci sono (più). Pochi mesi fa proprio con questo obiettivo, è stato eletto un nuovo duo alla guida del partito. Due giovani donne. Entrambe molto competenti e combattive, una dall’ovest, Janine Wissler, e una dell’est, Susanne Hennig-Wellsow. Hanno di fronte una crisi forse non più gestibile.

Il politologo Albrecht von Lucke, che sul fallimento di tutto il partito ha scritto un libro, una volta ha detto: «Questa sinistra non è stata capace di fare sua la questione nazionale, ha abbandonato alla destra la bandiera della rivoluzione del 1848. È un errore enorme». La sinistra e la questione nazionale: un tema in Germania da sempre problematico e avvincente, fatto di fallimenti (la Prima guerra mondiale, ad esempio) e di grandi vittorie (la Ostpolitik di Brandt).

Ecco perché non convince la tesi più recente dei dirigenti, quella di dover tornare a essere un partito che rappresenti l’est, leitmotiv ripetuto prima e dopo le elezioni in Sachsen-Anhalt. Certo, curare le proprie roccaforti è fondamentale per un partito, ma potrebbe condannarlo a essere sempre e solo una modesta forza regionale?

Ecco perché i sondaggi danno ormai la Linke poco oltre la soglia del 5 per cento. E con la Spd sotto il 20 per cento un’alternativa per la politica federale è da escludere. Nei prossimi anni un’unificazione, vale a dire una confluenza della Linke nella socialdemocrazia, potrebbe essere un passo quasi obbligato. Ma fare le cose per necessità non ha mai aiutato.

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