La Confindustria tedesca è in rivolta. Eppure, con un governo di coalizione tra Spd e l’Unione (Cdu e Csu, i partiti democristiani), tradizionalmente vicina alle istanze degli industriali, dovrebbe star serena. Il motivo che ha causato tanta tensione tra i dirigenti d’azienda è la nuova quota rosa su cui si sono accordate la scorsa settimana la ministra della Giustizia Christine Lambrecht e quella delle Pari opportunità Katerina Giffey, entrambe della Spd. In extremis è arrivato anche il via libera del ministro dello Sviluppo economico Peter Altmaier, che inizialmente aveva risposto con un secco «no» alle istanze delle due ministre. Una mossa concordata con la cancelliera: l’orizzonte è chiaramente il voto alle porte, e l’apertura alle quote rosa disinnesca un possibile terreno molto sciviloso per la Democrazia cristiana. 

In realtà Altmaier, che internamente alla Cdu è un sostenitore delle pari opportunità, a livello governativo deve fare i conti con le richieste degli industriali. La sua posizione inizialmente contraria alle quote ricalcava però quella del partito nelle trattative per la formazione del governo nel 2018. 

Il muro contro muro tra i due partiti della coalizione in primavera ha portato poi alla creazione di una commissione ad hoc che ora ha presentato una proposta di compromesso: in ogni consiglio d’amministrazione delle trenta principali aziende quotate in Borsa (in particolare al Dax, il Ftse Mib tedesco) che contenga più di due membri deve essere nominata almeno una donna. Se la misura viene disattesa e il posto viene assegnato a un uomo, la decisione è nulla e la posizione resta vacante. Inoltre, le aziende che in futuro non si imporranno un traguardo di parità dovranno motivare questa decisione, con il rischio di incappare altrimenti in una sanzione. Per quanto riguarda le partecipate pubbliche il vincolo è ancora più stringente perché è richiesta una presenza femminile superiore al 30 per cento. 

Le imposizioni al settore privato non sono dunque particolarmente pesanti, basti pensare che in Italia una legge che impone ai consigli d’amministrazione una composizione caratterizzata da almeno un terzo di donne è arrivata già nel 2011. La legge bipartisan Golfo-Mosca ha avuto discreti risultati: nel 2019 l’Italia era al quinto posto nel mondo per presenza femminile con il 33 per cento delle donne nei board. In Germania, per capirci, il dato generale è di un misero 7,6 per cento di presenze nei consigli d’amministrazione. La performance migliora un po’ nei board delle quotate sul Dax, dove la percentuale sale al 12,8 per cento, ma nel 2020 contestualmente alla crisi pandemica è stato registrato un importante calo: delle 29 donne consigliere nel 2019, sei sono state sostituite da uomini. Il tentativo del 2011 degli industriali di autoregolamentarsi per garantire la parità è fallito miseramente, come mostrano i dati degli ultimi anni. Nel 2016 però il governo è intervenuto sui Consigli di Sorveglianza, il secondo organo che in Germania affianca il Consiglio d’amministrazione nella gestione dell’azienda, composto per metà da rappresentanti dei lavoratori e, per l’altra, da consiglieri scelti dagli azionisti. 

È vero che tradizionalmente le quote rosa anche in Germania sono materia della sinistra (prima dei Verdi, che l’hanno presto imposta come elemento strutturale della costruzione delle loro liste elettorali, ma anche della Spd), ma anche i sedici anni al potere di Angela Merkel non ha portato parlamento ed esecutivi ad andare oltre il dibattito sull’argomento, fatta eccezione per il vincolo del Consiglio di Sorveglianza. È per questo che la presa di posizione arrivata proprio dalla cancelliera su questo tema è un punto di svolta importante: in estate, dopo essersi confrontata con Giffey, durante un intervento al Bundestag 9è arrivata a dire che l’esistenza di aziende nel cui consiglio d’amministrazione non è presente neanche una donna (delle prime trenta quotate sono ben undici) è una condizione «che nessuno può ritenere sensata». Da lì la promessa di non far tramontare la questione e ora il compromesso, seppur debole, seppur contrastato dagli industriali, che martedì arriverà ai piani alti dei due partiti di governo.

Insomma, anche i democristiani hanno capito che la parità è sexy. E dopo anni di opposizione anche la Csu, l’ala più conservatrice dell’Unione, si è convertita alla ricerca del consenso delle donne, promuovendo la parità negli organi interni e mostrandosi partito difensore delle politiche che permettano di conciliare lavoro e famiglia. Con un occhio già rivolto alle prossime elezioni. 

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