Problema. La signora B. è una politica di punta di un partito che farà il pienone alle prossime elezioni federali. Lei è a favore di un maggior impegno del proprio paese sulla scena globale – ma come fare a catturare un elettorato refrattario alla Realpolitik, perplesso dal declino del multilateralismo e affetto da antiamericanismo latente?

La signora B. è Agnieska Brugger, responsabile in pectore della politica di difesa dei Verdi, potrebbe però anche essere Franziska Brantner, portavoce per le questioni europee, o direttamente Annalena Baerbock, candidata cancelliera. In ogni caso, è una domanda che da anni si pone tutta la classe dirigente del partito, specialmente i molti Fachpolitiker (politici specializzati su un tema) chiamati a negoziare un potenziale contratto di governo. Il problema è serio e si era già manifestato nel 2017, in occasione della quasi-partecipazione in un governo a guida Cdu. All’epoca, come ha spiegato Brugger a compagni di partito, Verdi e cristianodemocratici avevano trovato ben più convergenze geopolitiche che non con l’Spd, ostile all’aumento delle spese militari. Oggi, con il doppio dei voti e con l’ambizione di guidare la prossima coalizione a Berlino, ci si potrà forse aspettare meno volontà di compromesso. A complicare la partita c’è anche il tradizionale spoils system che riserva la guida del ministero degli Esteri al partner “junior” del governo, la Difesa al partito che detiene la cancelleria (di per sé già dotata di un notevole dipartimento esteri) con Sviluppo economico e Cooperazione internazionale contendibili.

L’evoluzione

La situazione, in effetti, può sembrare paradossale. In molti hanno scritto della metamorfosi radicale subita dai Verdi negli ultimi decenni, una trasformazione che li ha portati dal movimento per la pace a posizioni più simili alla responsability to protect dei liberal americani. Si è partiti da Joseph Beuys, artista co-fondatore dei Grüne che negli anni Ottanta cantava «Il film è finito/riportati i missili a casa/perché noi vogliamo il sole al posto di Reagan», fino ad arrivare al dibattito fra lo storico americano Stephen Wertheim e Brantner sul settimanale Die Zeit, dove quest’ultima si è lanciata in un’accorata difesa delle basi militari statunitensi in Germania.

La caricatura, per quanto fedele ai fatti, banalizza però un fenomeno politico il cui unico, vero motore ideologico è il confronto con l’arrancante modernizzazione tedesca. La politica estera dei Verdi, più che ogni altro aspetto della sua agenda riformista, si è formata attraverso una lunga marcia nelle istituzioni accademiche che formano oggi la clientela elettorale del partito. Questo stesso ambiente - università, think tank, associazioni “sbarbate” e ben educate – è lo stesso sottobosco intellettuale che nel corso degli anni ha provato a formulare una politica estera più proattiva. Per un paese cosi dipendente dall’export e un grandissimo soft power, sarebbe anche il minimo. È abbastanza evidente per la Bdi, la Confindustria tedesca, che ad agosto 2019 richiedeva un intervento europeo per sorvegliare il flusso di petrolio fuori dallo stretto di Hormuz – ma anche per i fautori della transizione energetica, che necessiterà di una via d’accesso alle risorse fotovoltaiche nordafricane.

Da dove cominciare

Ed è proprio qui il fulcro del problema: anche se la maggior parte dei tedeschi, soprattutto giovani, sostiene che la Bundesrepublik debba attivarsi maggiormente nel panorama globale, pochi sembrano convinti dall’attuale traiettoria dell'impegno tedesco. Come rivela il Berlin Pulse del 2020, l’opinione pubblica tedesca concepisce la politica estera secondo parametri idealisti, mostrandosi però poi molto meno volenterosa nel sostenere le misure necessarie per raggiungere quegli obiettivi. Affrancamento dall’alleato americano e difesa europea? Yes please, ma senza militarizzazione. Sostegno alle iniziative di Macron? Évidemment, però senza una federalizzazione economica.

Quanto può essere un problema per i Verdi? Proprio perché un partito abbondante di expertise, già oggi percepiscono la contraddizione di dover essere un partito, per così dire, di lotta e di governo. Che la prima grande intervista da candidata di Baerbock fosse dedicata proprio a questo tema segnala una volontà di prendere il toro per le corna, oltre che a ingraziarsi gli osservatori internazionali (soprattutto a Washington e Parigi). Aiuta anche essere un partito che intraprende una politica estera femminista. Tecnicamente, ciò vuol dire che è dedito a disinnescare dinamiche di potere gerarchiche nella politica internazionale – realisticamente, gli elettori ne percepiscono una versione meno “cervellona” ma comunque condivisibile: scuole per bambine in Afghanistan, aiuti umanitari in Africa, e così via.

Questo tipo di attivismo è forse necessario, perché la piattaforma politica Verde evita di allentare i limiti istituzionali che hanno finora limitato la capacità tedesca di rispondere alle richieste degli alleati. Costituzionalmente, la Germania non può partecipare a coalizioni dei volenterosi non dotate di un mandato Ue, Nato o Onu – con grande irritazione dei francesi, i quali non vogliono subire la paralisi (o la “morte cerebrale”) dei tre organi. Al posto di una riforma costituzionale, o di darsi alla creatività giuridica nell’interpretazione della Legge Fondamentale, i Verdi propongono quindi una serie di riforme delle istituzioni multilaterali, più o meno originali e più o meno realistiche. Data la complessità delle trattative necessarie, è verosimile che un(a) responsabile esteri dei Verdi approverebbe un impegno più massiccio nelle missioni di peacekeeping – rimanendo tuttavia lontani da missioni di peace enforcement più robuste, come avviene oggi in Sahel fra Opération Barkhane francese e Minusma Onu. Una divisione del lavoro che non soddisfa né i francesi, troppo deboli per controllare l’immenso territorio, né i tedeschi, che si sentono complici di un’operazione antiterrorismo di cui non approvano i metodi.

Alternative

Più concreto sembra l’approccio al vicinato orientale e la Russia. La fermezza nei confronti di Mosca (così dura da aver causato una microcrisi nella base del partito, ancora in parte legato alla tradizione pacifista degli anni Ottanta) è il fulcro di una due piani paralleli. Strategicamente, la regione sarà il banco di prova per lo European Green Deal esteso come nuovo paradigma di sviluppo europeo. La Außenklimapolitik (politica climatica estera) è considerata come un nuovo modello economico che indebolisce i monopoli detenuti dagli oligarchi e democratizza il potere economico – ed esprime qui anche i dubbi manifestati sull’idrogeno, che è “catturabile” da una piccola minoranza tanto quanto il gas e che in ogni caso sarebbe catalizzato con carbone ed energia nucleare.

Strumentalmente, posizionarsi sulla linea di Varsavia e Washington su Nord Stream 2 e altri temi transaltantici ha due vantaggi. Questa strategia permette infatti di avviare un lungo processo di allontanemento dalla Nukleare Teilhabe, ossia la dotazione della Luftwaffe di armi nucleari americane. Porre fine a questa pratica, di cui beneficia anche l’aviazione italiana, è un punto non-negoziabile per i Verdi.

Un piano di questo genere, complimentato da un’autonomia strategica Ue, è visto però con preoccupazione dagli stati membri dell’est, che percepiscono ogni diminuzione della presenza americana in Europa come un indebolimento della propria posizione nei confronti dei russi.

Certo, nel partito ci sono quelli a cui poco importa dei destini dei paesi baltici, e che se non fosse per la disciplina di partito ferrea lancerebbero netti slogan contro le armi nucleari Nato. Per evirare di fare le figuracce della Spd, che con la nuova leadership di sinistra ha provocato reazioni isteriche fra il baltico e il mar Nero, i Verdi hanno nuovamente posto l’enfasi sulla necessità di un dialogo strategico con i partner.

Lo stesso approccio è stato adottato sui droni, considerati come l’anticamera per le armi autonome à la Terminator. Richiedere trattative multilaterali, impegnarsi all’Onu e alla Nato per l’avvio di processi a lungo termine sono metodi per moderare la polemica e riportarla a una politica più concreta. D’altra parte, l’impegno ad aumentare il giusto le spese militari e rafforzare la prevenzione civile non è sufficiente per dissipare ogni dubbio su come si comporteranno i Verdi di fronte a un’escalation militare nei paesi più prossimi.

Altre questioni urgenti rimarranno senza risposta fino a settembre – saranno i Verdi disposti ad approvare l’enorme budget del Fcas, il nuovo caccia franco-tedesco con la capacità di sganciare ordigni nucleari e controllare nugoli di droni? Sarebbe una decisione clamorosa per un partito che pur con ogni distinguo e foglia di fico multilaterale sulla carta persegue comunque un’agenda pacifista. Lo sarebbe ancora di più per un partito multilateralista e che ha costruito il suo ethos sulla presa di responsabilità internazionale della Germania, che si tratti di clima o preservazione della pace.  

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