Marcel Fratzscher dirige a Berlino il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw). È professore di macroeconomia alla Humboldt Unversität di Berlino e, nel mondo tedesco, è considerato un convinto europeista, vicino a posizioni progressiste. Pur non volendo entrare nel merito del problema giuridico sollevato dal ricorso costituzionale contro Next Generation Eu, Fratzscher come ribadito anche in questa intervista non è mai stato convinto dalla pretesa della Corte costituzionale di Karlsruhe di valutare le attività delle istituzioni europee: un compito che a suo avviso spetta esclusivamente alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La sua riflessione comunque conferma un punto: Next Generation Eu rappresenta una misura economica assolutamente limitata per la Germania, caratteristica che giocherà certamente un ruolo nelle valutazioni del tribunale costituzionale federale.

Professore, che idea si è fatto di Next Generation Eu? È la risposta giusta per la crisi della pandemia?

L’obiettivo del programma Next Generation è rendere l’Europa un continente di successo e competitivo nel contesto globale. Non rappresenta una soluzione o una risposta alla pandemia, anche perché le risorse arriveranno a partire dal prossimo anno, quando la pandemia, si spera, sarà ormai superata e l’economia avrà iniziato a riprendersi. Non è, quindi, uno strumento per contrastare gli effetti della pandemia, servirà, soprattutto, a dare all’Europa un impulso alla crescita in settori importanti come questione del riscaldamento globale e la digitalizzazione. Next Generation migliorerà la convergenza e la coesione del continente. Un altro aspetto importante è che questa enorme cifra, 750 miliardi di euro, non è fatta solo di crediti ad un tasso vantaggioso ma anche di trasferimenti da paesi ricchi, come la Germania,  verso quelli che hanno bisogno di recuperare e di sostegno.

Il piano è compatibile con i trattati europei e la Costituzione tedesca?

Non sono un giurista e in Germania si vedono spesso economisti avere un’opinione in merito senza davvero conoscere il diritto. Vorrei fare due osservazioni. Innanzitutto, si tratta della questione della responsabilità, che è il vero punto centrale. Può la Germania rispondere dei debiti di altri paesi: questa è la questione fondamentale e credo che come economisti dovremmo astenerci dal rispondere su cosa sia davvero possibile all’interno dei trattati europei. È sempre stata una questione oggetto di scontro in Germania: il tribunale costituzionale federale di Karlsruhe ha, negli anni passati, accolto anche ricorsi sui programmi della Banca centrale europea (ad esempio sul Pspp, sono stati già presentati ricorsi contro il piano della Bce per contrastare gli effetti della pandemia, il Pepp, ndr). Questa è la prima osservazione ma per me, da economista, la questione centrale è un’altra: ha senso condividere questa responsabilità? La risposta è si, assolutamente. Se qualcuno dice: «Viviamo insieme in Europa ma non vogliamo rispondere per i nostri vicini», non ha capito cosa siano la globalizzazione e l’integrazione europea. Anche se non ci fosse l’Ue, persino se non avessimo accordi commerciali, saremmo comunque estremamente connessi l’uno all’altro. La Germania è tra i paesi che trae vantaggi maggiori dall’euro e dall’integrazione europea. Abbiamo un’economia molto aperta, di cui quasi il 45 per cento è costituito da esportazioni, anche verso l’Italia. In uno scenario simile ha senso assumere collettivamente i rischi. Gli economisti parlano sempre di condivisione del rischio: se si dividono in modo intelligente, i rischi vengono ridotti per tutti. Ecco perché ritengo questa responsabilità comune un’idea giusta e necessaria dal punto di vista sociale ed economico.

I ricorrenti propongono che siano i singoli stati a indebitarsi e poi a mettere a disposizione i fondi così ottenuti in un fondo europeo.

Si possono fare molte cose. Penso che questa idea non abbia senso perché produce poco. Alcuni di noi hanno proposto gli eurobond: penso sia un’idea migliore. Ci sono molti diversi strumenti, che, però, non sostituiscono Next Generation ma al massimo lo affiancano.

Restiamo sul ricorso costituzionale. I ricorrenti affermano che la Germania potrebbe essere chiamata a rispondere fino a 1.000 miliardi di euro.

Questo è il tipico scenario catastrofico evocato dagli avversari dell’Europa in Germania. Uno scenario del genere non esiste: se tutti i paesi lasciano l’Ue e non pagano i loro debiti, non lo farà nemmeno la Germania perché non ci sarà più l’Ue. La Germania risponde, nel peggiore dei casi, dello 0,6 per cento del suo Pil, certo non è una cifra da poco ma è una responsabilità limitata. Con Next Generation, se parliamo dei trasferimenti, la Germania dovrebbe pagare quasi 52 miliardi di euro netti nei sette anni di contribuzione. Certamente è una cifra rilevante, ma è nell’interesse tedesco. Faccio un esempio: anche in Germania redistribuiamo molte risorse all’interno del paese, dai Land più ricchi a quelli più poveri, dalle famiglie o dalle aziende più forte a quelle deboli: questo è l’unico modo in cui un’economia può funzionare, sia a livello nazionale che europeo. Ed è per questo che penso che l’importo di cui stiamo parlando sia molto modesto. Se Next Generation funziona e aiuta l’Europa a crescere, aiuta la Germania perché può esportare di più, perché l’economia in Europa sarà anche più competitiva con Cina e Stati Uniti. Sono fermamente convinto che la Germania sia stata uno dei vincitori dell’integrazione europea negli ultimi 30 anni. E lo è ancora.

Pensa che ci sia più fiducia nel continente, ad esempio da parte tedesca verso gli altri paesi?

Sì e credo che sia stato un segnale importante l’inversione di marcia del governo federale la scorsa estate, quando la cancelliera Merkel e il ministro delle Finanze Olaf Scholz sono stati le forze trainanti per l’approvazione di Next Generation. La maggioranza in Germania ha capito il segnale: dobbiamo aiutare l’Europa. Non si tratta solo di solidarietà: è anche un bene dal punto di vista economico e mi fa sperare che continueremo su questa strada anche in futuro. Ma è considerevole la resistenza di alcuni politici, soprattutto conservatori, contro una maggiore integrazione europea, che io ritengo, invece, necessaria.

Lei ha parlato di inversione di marcia. Next Generation è il primo passo verso l’unione fiscale?

Certamente potrebbe costituire un primo passo, ma ad oggi il programma è molto lontano da un’unione fiscale. Questo primo passo rappresenta l’orrore degli estremisti di destra e dei critici dell’Europa in Germania. Io credo, invece, che un’unione fiscale in Europa sia necessaria perché l’Europa e l’euro possano funzionare. Poi bisogna intendersi: realizzare un’unione fiscale non significa che la possibilità, ad esempio, di aumentare e diminuire le tasse e di spendere le risorse siano fatte esclusivamente a livello europeo. Ma credo che una determinata direzione – un bilancio centrale, una tassa europea, obiettivi europei – sia necessaria, e non credo sia un pericolo per gli Stati nazionali o il ruolo dei singoli governi. È un processo e non possiamo aspettare vent’anni, dobbiamo portare avanti riforme in Europa, compresa la questione del finanziamento.

Da economista cosa si sente di consigliare a Mario Draghi?

Penso che il primo ministro italiano sappia da solo quello che c’è da fare. Posso dire che deve essere chiaro che questi fondi di Next Generation non possono essere utilizzati per sostituire quelli nazionali, ma devono produrre ulteriori investimenti. L’Italia non è cresciuta negli ultimi 20 anni, ha grandi problemi strutturali ed è estremamente importante che il paese si riformi, che incoraggi più investimenti privati, che le aziende investano, che siano creati posti di lavoro di qualità, che l’economia torni a essere più competitiva, che sia riformata la pubblica amministrazione. Questa è la grande sfida e Next Generation è in definitiva un’opportunità per dire: l’Europa sta aiutando l’Italia a fare investimenti privati per questa trasformazione, per la protezione del clima e la digitalizzazione. Ci deve essere davvero una grande offensiva per gli investimenti in Italia, non solo con denaro pubblico, ma soprattutto con capitali privati.

Come giudica le relazioni tra i nostri due paesi?

Come economista indipendente che segue da vicino la politica qui a Berlino, devo dire che negli ultimi dieci anni c’è sempre stato un alto livello di apprezzamento per l’Italia. Il problema è che, purtroppo, questo non si rispecchia nel discorso pubblico, ci sono media a cui piace diffondere slogan populisti e molto nazionalisti, prendendo in giro l’Italia, le sue debolezze e i suoi problemi. Ma quando guardo sia i politici qui a Berlino che i sondaggi tra la popolazione, capisco che l’Italia è molto apprezzata. È chiaro che l’Italia è un partner molto importante, con punti di forza della struttura economica che non abbiamo in Germania: se si guarda al nord Italia con le sue imprese familiari di medie dimensioni, ci sono paralleli con il modello tedesco. C’è già molto rispetto per l’Italia, e la Germania non vuole altro che l’Italia cresca per riprendersi: anche la Germania ne trarrà vantaggio perché le nostre due economie sono profondamente legate.

La pandemia può costituire un’occasione per modificare le nostre economie? Magari anche per ridurre la dipendenza dall’estero? L’idea cioè che per alcuni beni sia necessario che la produzione torni a essere qui in Europa.

Sulla globalizzazione ho un’altra opinione: Germania e Italia ne traggono vantaggio, c’è una divisione globale del lavoro. In Germania abbiamo enormi vantaggi dai mercati con la Cina. Le nostre case automobilistiche realizzano un terzo dei profitti e delle vendite in Cina. La Germania e, in una certa misura, l’Italia sono le grandi vincitrici della globalizzazione. Le possibilità aperte della pandemia e il ruolo importante di Next Generation permettono di accelerare la trasformazione dell’economia europea nel settore climatico e in quello del digitale.

Questo è essenziale e il pericolo della crisi è che ci si aggrappi al ricordo di dov’eravamo, che si voglia tornare al 2019. Questa è un’illusione: la Germania deve guidare la trasformazione. Le case automobilistiche tedesche sono in ritardo nella trasformazione verso motori alternativi, l’elettromobilità e la guida autonoma. Se non si gestisce questa trasformazione, sarà una catastrofe: tra 10-15 anni le case automobilistiche tedesche non saranno più leader mondiali. Non c’è alternativa che accelerare questa trasformazione. Next Generation può essere d’aiuto.

Un’ultima domanda, torniamo al ricorso costituzionale. È ottimista che il tribunale costituzionale non rimanderà Next Generation?

Non sono un giurista, ma ritengo che i tentativi della tribunale costituzionale di voler decidere sul diritto europeo siano sbagliati. Competente è la Corte di giustizia europea in Lussemburgo. E questa è la mia critica al tribunale costituzionale e mi aspetto che faccia nuovamente marcia indietro. Alla fine, non resta che dire: «Dobbiamo sentire cosa ha da dire la Corte di giustizia europea».

Credo che funzionerà anche questa volta. Io critico proprio questo aspetto: il tentativo politico di creare ripetutamente incertezza e di esercitare pressioni sulle istituzioni europee. Vorrei che i trattati europei venissero modificati, semplicemente per chiarire cosa può fare la Commissione europea o cosa può fare la Bce. Con il principio dell’unanimità, potremmo aver bisogno di altri dieci anni, e purtroppo non abbiamo tutto questo tempo. È per questo che dobbiamo decidere se non sia urgente passare dall'unanimità alla maggioranza o una maggioranza qualificata, in modo che l’Europa diventi più dinamica e possa anche affrontare le sfide dei prossimi anni.

© Riproduzione riservata