Poche settimane fa è stato inaugurato il nuovo Humboldt Forum, un edificio destinato a ospitare musei e mostre, costruito nel centro di Berlino dove una volta sorgeva il Palast der Republik, nel quale si riuniva la Volkskammer, il parlamento della Ddr. A sua volta proprio il Palast era stato edificato dopo l’abbattimento dello Schloss, il palazzo reale. Tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila si decise che il nuovo Forum sarebbe stato costruito all’interno di un edificio che doveva essere la copia del vecchio Schloss.

Si aprì una discussione interminabile: perché abbattere il Palast der Republik e non riutilizzarlo, inserendo così anche la storia della Repubblica democratica all’interno della storia nazionale tedesca? Perché ricostruire il vecchio Schloss degli Hohenzollern come se si potesse cavare la parentesi nazionalsocialista della storia nazionale senza doverci più fare i conti? Una discussione simile a quella negli anni Novanta da quella sul Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa, che oggi sorge poco lontano dal Bundestag.

Se il confronto con il proprio passato è attività indispensabile per ogni comunità umana, esso è diventato in Germania, perlomeno dal secondo dopoguerra, un processo quasi permanente. Lo stesso concetto di Vergangenheitsbewältigung, vale a dire rielaborazione del passato, è stato con successo esportato in altri paesi. Molti ricorderanno l’Historikerstreit di fine anni Ottanta, aperto dalle dichiarazioni dello storico conservatore Ernest Nolte e poi arricchitosi di tanti contributi, tra cui quello di Jürgen Habermas.

Oppure la mostra sui crimini della Wehrmacht promossa a partire dalla metà degli anni Novanta, che frantumava definitivamente la consolatoria immagine di un esercito (buono) di fronte ai criminali delle Ss. Oggi la repubblica federale fa vanto di quella discussione e, tuttavia, tutta la sua storia, dal secondo dopoguerra alla riunificazione, è stata segnata dal conflitto tra la parte progressista e quella conservatrice della società tedesca proprio sull’eredità del nazionalsocialismo: gli anni Sessanta con i processi Eichmann (in Israele) e Auschwitz e lo straordinario ruolo del procuratore Fritz Bauer che rese possibile il primo e istruì il secondo, il movimento studentesco e la sua pretesa di una ri-fondazione della Repubblica, gli anni Settanta con la costituzionalizzazione della tesi della continuità tra Reich e Repubblica federale (operata prevalentemente per fondare pretese esclusive sulla rappresentanza del popolo tedesco), gli anni Ottanta proprio con l’Historikerstreit. Le polemiche sullo Schloss, quindi, non sono qualcosa di nuovo ma rappresentano un livello nuovo di un conflitto che assume contorni sempre nuovi.

La trattazione moderna

Tant’è che oggi sia la rivista Merkur sia settimanali più popolari come lo Spiegel non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con questa nuova discussione all’interno della storiografia tedesca. Si tratta, in effetti, di più discussioni sul rapporto con il passato nazionale: la questione del Sonderweg, cioè di quel cammino particolare compiuto dai tedeschi per arrivare all’unificazione e più in generale alla modernità, e le caratteristiche della Prussia come “fondatrice” del Reich, i limiti del movimento liberale e democratico nell’Ottocento e, infine, il problema del colonialismo tedesco, della sua elaborazione e del rapporto con l’antisemitismo.

Con un’avvertenza che lo storico Sebastian Conrad proprio sulla rivista Merkur ha avanzato: «Il passato tedesco da tempo non è più discusso solo in Germania. E di contro in Germania si manifesta contro il razzismo negli Stati Uniti, i soprusi del governo turco, l’espulsione dei Rohingya dal Myanmar. Una memoria puramente nazionale è così poco pensabile». Che conseguenze ha questa valutazione sull’attuale processo di elaborazione del passato?

Da un lato, abbiamo a che fare di nuovo con il Sonderweg. Tra i testi più recenti che lo hanno messo in discussione c’è quello della storica Hedwig Richter che nel suo libro Demokratie. Eine deutsche Affäre, ha proposto una lettura del XIX secolo tedesco nella quale gli elementi positivi sembrano imporsi sui suoi limiti.

La cosa non è piaciuta ad alcuni suoi colleghi, in particolare a quelli della generazione precedente che avevano fatto del Sonderweg la ragione del successo del Nazionalsocialismo. Non che sia possibile banalizzare il discorso istituendo una connessione meccanica tra Bismarck e Hitler, ma l’obiettivo era provare a ragionare sui limiti del progetto "nazionale” tedesco di fine Ottocento, le cui contraddizioni, una volta deflagrate, spianano la strada al progetto nazionalsocialista. Il tentativo di Richter non è piaciuto, tra gli altri, al decano degli storici tedeschi, Heinrich August Winkler, che ha sottolineato come l’idea di un Sonderweg serviva e serve soprattutto a ragionare sulle specificità della storia tedesca e a evitare la riduzione del Nazionalsocialismo e di Hitler a “incidente di percorso”, da sempre sogno dei reazionari tedeschi con il motto «senza Versailles non ci sarebbe stato Hitler» e recentemente ripreso dal capo di Alternative für Deutschland, Alexander Gauland, con l’idea che Hitler sarebbe stato solo un Vogelschiss, una “cacca” nella limpida storia nazionale tedesca.

Il senso della storia

Si tratta, dunque, di una polemica sul senso stesso del fare storia e sulla sua responsabilità nella definizione di un confronto costante e pubblico con le specificità della storia nazionale: gli storici non possono mai perdere d’occhio, sembra essere il monito di Winkler, da quegli elementi che hanno reso possibile il Nazionalsocialismo e che potrebbero anche riattivarsi.

Anche il direttore delll’Institut für Zeitgeschichte, Benjamin Hasselhorn, ha messo in evidenza i rischi di ignorare le cause di lungo periodo del Nazionalsocialismo e sullo Spiegel ha anche accusato gli eredi degli Hohenzollern di giocare con questo clima, mettendo in luce gli elementi positivi della loro famiglia (si suppone: precedenti al nazionalsocialismo) e avanzando richieste di risarcimento e la restituzione di opere d’arte: una discussione che appena dieci anni fa sarebbe stata impensabile.

È probabile che la reazione di Winkler e degli altri storici si spieghi proprio con la consapevolezza che la storia dell’Ottocento rappresenterà il terreno di scontro di un nuovo dibattitto storiografico, perché è proprio lì che si condensano problemi che spiegano l’evoluzione successiva della storia tedesca. E che dicono molto anche sulla condizione attuale del continente: la questione del federalismo, ad esempio, è un tema centrale anche oggi nella revisione delle competenze tra stati e Unione europea.

Come pure la connessione tra la questione nazionale e quella democratico-sociale, sulla quale si schianta il movimento del 1848 e che ne paralizza l’operato per i decenni successivi. Proprio su questo, un’altra polemica ha infiammato la discussione: qual è il giudizio sul movimento democratico del 1848? Il rischio, che Herfried Münkler ha evidenziato di recente ma che è stato sottolineato anche dal politologo Albrecht von Lucke, è quello di trascurare gli elementi dinamici e positivi, per quanto sconfitti, dell’Ottocento e schiacciare tutta la storia nazionale sulla vittoria di Bismarck.

Questo, oltre a rappresentare una falsa (perché unilaterale) rappresentazione di quella fase, impedirebbe alle forze democratiche di oggi di confrontarsi con quanto di positivo c’è nella tradizione tedesca, finendo per abbandonare la rappresentanza della questione "nazionale” solo alle forze conservatrici o, peggio, a quelle populiste.

Infine, per tornare all’avvertenza di Conrad che invita a tener presente anche quanto la società tedesca sia cambiata e quanto la sua pluralità interna incida su questa nuova fase della Vergangenheitsbewältigung. In una società plurale e multinazionale la discussione non può essere una semplice riedizione di quanto avvenuto nei decenni scorsi.

Ad esempio: l’Humboldt Forum ospiterà anche il Museo etnologico e la storica dell’arte Bénédicte Savoy (autrice del libro Afrikas Kampf um seine Kunst, La battaglia dell’Africa per la propria arte) ha criticato la scarsa trasparenza dei musei e la necessità di restituire quanto sottratto illegalmente. Si apre così il piano del confronto anche con il passato coloniale che, per quanto breve non è stato certamente esente da violenze. Lo dimostra il recente tentativo, dopo lunghe trattative e ancora non del tutto completato, di riconoscere il genocidio in Namibia operato dalle truppe tedesche.

Da qui si aprono, però, altri problemi: il rapporto tra i crimini del colonialismo e l’Olocausto (con qualcuno che si chiede se una comparazione non finisce per relativizzare l’eccezionalità del secondo?), come procedere con il cosiddetto razzismo strutturale della società tedesca verso le minoranze, quelle di colore, certo, ma anche quello rivolto contro le comunità asiatiche? E come evitare anche un razzismo strisciante tra i diversi gruppi nazionali, come ad esempio quello di alcune organizzazioni turche contro i cittadini tedeschi di origine curda? Ecco che, ancora una volta, la Vergangenheitsbewältigung si dimostra una disputa che non è confinabile solo agli ambienti accademici.

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