La legislatura è ormai agli sgoccioli. A giugno si concluderà l’ultima sessione del Bundestag prima della pausa estiva e delle elezioni di settembre. Con cinque brevi mesi per concludere gli affari parlamentari rimasti in sospeso, i partiti si stanno dando un gran da fare. In altri tempi sotto il grande cupolone del Reichstag ci sarebbe stato un gran via vai.

La commissione d’inchiesta sul caso Wirecard non è da meno. Da fine gennaio i parlamentari che stanno indagando sulla truffa che si è rivelata quest’azienda, che sembrava la nuova storia di successo della finanza tedesca, hanno dovuto raddoppiare le ore di lavoro, trasformando le audizioni dei testimoni in veri e propri tour de force. La settimana scorsa è stato raggiunto il picco assoluto, addirittura trenta ore di testimonianze in tre giorni. 

Le responsabilità

La fretta è più che giustificata se si considera quanto lo scandalo tocchi il cuore della politica economica tedesca, quel legame speciale fra stato ed economia che l’ha trasformata in potenza industriale. La cosiddetta economia di mercato coordinata si basa su una partnership più o meno cooperativa fra istituzioni, parti sociali e industria. Questo si traduce in stretti rapporti fra manager e consiglieri d’amministrazione (quello che i giornali amano chiamare Deutschland Ag, o Germania S.p.A.), ma anche un interesse speciale da parte del governo federale per l’espansione delle aziende tedesche all’estero. 

Le conseguenze di questa vicinanza possono essere imbarazzanti. Il fatto che Angela Merkel si sia spesa per l’accesso di Wirecard al mercato cinese durante la sua ultima visita di stato nella Repubblica popolare è notevole; altrettanto lo è il fatto che il lobbysta di Wirecard più vicino alla cancelliera fosse il suo ex pupillo Karl-Theodor zu Guttenberg, ex ministro della difesa esautorato a causa di un plagio nella sua tesi di dottorato. Pechino non dev’essere stata poi tanto sorpresa nello scoprire quanto la strategia commerciale tedesca si basi su favori fra amici di partito.

Non che la Spd esca molto meglio da questo scandalo. Matthias Hauer, rappresentate Cdu nella Commissione parlamentare d’inchiesta, precisa che «bisogna chiarire anche le responsabilità di Olaf Scholz, che in quanto ministro delle Finanze è responsabile di BaFin (l’autorità di controllo competente, ndr) e il capo di Felix Hufeld», fino a settimana scorsa direttore dell’authority. «Naturalmente la Spd sa che il ministro delle Finanze, che è anche candidato cancelliere per il partito, si trova sotto pressione a causa dell’inchiesta. Ciò ha anche portato la Spd ad interessarsi soltanto delle colpe della società di revisione EY per distrarre dagli errori commessi dal ministero del signor Scholz».

Insomma, la Commissione d’inchiesta potrebbe scovare materiale tossico per entrambi i partiti della coalizione nel pieno della campagna elettorale. E dire che nel 2019 l’azienda di fintech si era finalmente affermata come gioiello della finanza globale. Wirecard era un raro esempio di fintech tedesca di successo e, in un certo senso, faceva comodo a tutti. Nonostante la propria ricchezza materiale e intellettuale, la Germania non è ancora riuscita a produrre né giganti digitali né istituti finanziari capaci di foraggiarli. I dinosauri Sap e Deutsche Bank sono in difficoltà più o meno gravi che rischiano di fargli perdere i treni della rivoluzione digitale e dell’Unione bancaria. In questo quadro un po’ desolante, Wirecard sembrava fornire un modello per il sistema-paese, arrivando a vantare da 2 miliardi di euro.

Il piano

“Vantare”, ovviamente, perché Wirecard rappresenta una delle più grandi truffe finanziarie della storia. Grazie alle indagini del Financial Times, e in particolare di Dan McCrum, sappiamo oggi infatti che l’azienda non ha mai realmente raggiunto il giro d’affari dichiarato. L’imbroglio, di per sé, non è neanche particolarmente raffinato. (Ri)fondata nel 2005 come azienda di servizi finanziari, il modello di business si è per anni basata sul trattamento di pagamenti con carta di credito “rischiose”, ad esempio per l’acquisto di porno. L’azienda è presto salita alle luci della ribalta gonfiando il proprio volume di entrate dichiarato e sostenendo la farsa con acquisti di opache aziende e uso di prestanomi in giurisdizioni difficilmente raggiungibili dalle autorità europee, come le Filippine.

La strategia del fondatore Jan Marsalek (latitante) e dell’amministratore delegato Markus Braun (arrestato) era abbastanza rudimentale, per quanto efficace: spostare il maggior numero possibile di asset nelle controllate all’estero, nascondere le voragini del bilancio e mimare l’arroganza e sicurezza di sé di start-up oneste. L’inevitabile è accaduto a metà del 2020, quando l’ennesima indagine del Financial Times spinse a un’indagine più approfondita da parte della società di revisione EY. Il risultato è stato il tracollo sulla borsa tedesca (sulla quale Wirecard era appena stata quotata), insolvenza, una serie di arresti e la scomparsa di 1,9 miliardi di euro nelle viscere del sistema finanziario globale.

Quella di Wirecard è una storia spettacolare per tante ragioni. Jan Marsalek, la mente criminale dietro l’affaire, sembra evaso da un film di Terry Gilliam. Del manager sappiamo, fra le altre cose, che pianificava la costruzione di una “milizia anti-migranti” da schierare in Libia, di essere vicino ai servizi segreti austriaci e al partito austriaco di estrema destra Fpö, di millantare il possesso della “ricetta” del veleno russo Novichok (utilizzato contro Aleksej Navalny e Sergei Skripal), di aver ospitato mercenari russi in un cementificio da lui posseduto in Libia, di aver tentato di acquistare spyware prodotto dall’italiana Hacking Team e di essere, umanamente, una persona piuttosto stravagante.

L’aspetto più impressionante della vicenda è però la beata cecità che ha colpito le autorità finanziarie, politiche e regolatorie tedesche. Questo sicuramente vale per l’agenzia di revisione, EY che per anni non si è accorta – per scelta o incompetenza – che Wirecard fosse essenzialmente un costoso castello di carte. Ma è il comportamento della BaFin, l’autorità di controllo delle attività finanziarie, che più fa la tara delle ambizioni finanziare della Bundesrepublik.

Che l’agenzia fosse a corto di personale e affaticata da procedure arzigogolate era già noto da tempo – il fatto che dipendenti dell’agenzia abbiano speculato sulle azioni di Wirecard almeno 329 volte fra il 2018 e il 2020 meno. E ciò rende abbastanza dubbia l’offensiva legale montata BaFin contro il Financial Times, accusato di manipolare le azioni Wirecard tramite le proprie indagini, o gli appunti interni dell’agenzia che vedevano dietro agli short sellers (speculatori finanziari che scommettono sul calo delle azioni) un complotto anglo-israeliano, ignorando tutti i segnali che qualcosa non andava.

Insomma, il collasso di Wirecard ha scostato il velo di orgoglio e presunzione con cui l’economia tedesca, a torto o ragione, ha cercato di ammantare un doloroso processo di trasformazione. La metamorfosi da potenza industriale europea ad attore economico globale, dalla repubblica di Bonn a quella di Berlino, non sarà facile. Già dopo la proclamazione dell’impero guglielmino, dal 1870 fino al 1873, la Germania ha conosciuto un impeto industrializzazione vertiginosa, conclusasi con un clamoroso crack finanziario e annessa depressione. L’epoca è tuttavia conosciuta come Gründerzeit, l’era dei fondatori, e molti giganti come Deutsche Bank e Krupp furono proprio fondati in quegli anni. Vedremo nei prossimi anni se la liquidazione di Wirecard sarà giudicata come un incidente di percorso o un segnale d’allarme per le élite del paese.

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