Joe Biden ha un problema con Dachau. O almeno, così ha scritto nella sua autobiografia, pubblicata già nel 2017 negli Stati Uniti e recentemente tradotta in tedesco: il testo ha creato una certa polemica, ripresa anche dal settimanale Der Spiegel. Il presidente eletto ha visitato l’ex campo di concentramento, oggi un memoriale costruito per non dimenticare la tragedia che lì si è consumata, quando era ancora vice di Barack Obama, nel 2015. L’occasione della visita, rigorosamente privata e senza grosso seguito, era la compagnia della nipote Finnegan a cui voleva mostrare un luogo tanto cupo e dove erano accadute cose così terribili. In precedenza, negli anni Ottanta, Biden aveva già visitato il campo, fondato nel 1933 e dove state assassinate oltre 40mila persone, anche con i figli Beau, Hunter e Ashley.

La polemica

Nel 2015 l’allora vicepresidente era stato accompagnato dalla direttrice del memoriale, Gabriele Hammermann, e dal sopravvissuto novantacinquenne Max Mannheimer, presidente della Lagergemeinschaft, la comunità dei sopravvissuti, che ha perso moglie, genitori e due fratelli uccisi dai nazisti.

Uno dei temi più discussi in quell’occasione era stato il furto, pochi mesi prima, dell’iscrizione Arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”, all’ingresso del campo. Biden aveva ribadito quanto fosse importante per lui lottare contro l’antisemitismo. Dopo la visita ai forni crematori, alle baracche e alle camere a gas, il vicepresidente americano aveva lasciato un contributo nel libro dei visitatori: «Tutto questo può succedere di nuovo. Non si può restare in silenzio. Chi resta in silenzio è complice».

Nel suo libro, però, il presidente eletto, il primo che entrerà nella Casa Bianca avendo già visitato il campo, sostiene che il memoriale sia stato modificato «in modo da farlo sembrare meno opprimente ai visitatori». L’impressione gli sarebbe venuta confrontando le diverse volte in cui ha visitato Dachau: nel 2015 i letti gli sarebbero sembrati «puliti» e i supporti a castello «appena riverniciati», non come negli anni Ottanta, quando nelle strutture di legno aveva notato ancora le incisioni dei reclusi. Una prova del fatto che «i dettagli più cruenti fossero stati negli anni addolciti». Der Spiegel sottolinea come il passaggio più problematico per Biden sarebbe il racconto delle camere a gas, che nel 2015 gli erano apparse come utilizzate «poche volte» o addirittura «mai».

Il memoriale

Chiedendo chiarimenti alla direttrice, il settimanale ha però ricevuto una risposta sorpresa da Hammermann, che racconta di aver spiegato la storia del campo al presidente eletto e di aver avuto un riscontro positivo anche da Mannheimer che l’aveva accompagnato. L’altro elemento che la direttrice solleva è che le baracche che oggi restano a Dachau sono state ricostruite negli anni Sessanta per dare un’impressione più realistica della quotidianità dei reclusi.

Prima di diventare un memoriale, infatti, Dachau è stato usato anche come campo di prigionia dalle forze americane per i criminali nazisti, mentre successivamente è diventato un luogo di rifugio per i Vetriebenen, i tedeschi cacciati dai territori dell’est Europa dove vivevano e rimpatriati alla fine della guerra.

Biden non è l’unico ad aver pensato di trovarsi davanti a reperti autentici. Secondo la direttrice infatti, nonostante le segnalazioni, spesso i visitatori credono di vedere strutture originali. Ma nulla è stato riverniciato né aggiustato o migliorato per dare un’impressione meno tetra. Stesso discorso per le camere a gas di Dachau, utilizzate secondo gli storici solo in maniera saltuaria: ci sarebbero stati omicidi portati a termine con il gas, ma non si sarebbe trattato di una pratica applicata in maniera sistematica come altrove.

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