Il nuovo Pnrr non sembra interessarsi molto di modelli e valutazioni: il testo dedica a questo tema solo 20 pagine su 336, né appoggia le valutazioni macroeconomiche finali a valutazioni microeconomiche, nemmeno per i progetti maggiori. Ritorna ad affermare (come la versione precedente) che ci si basa su assunzioni a priori di “massima efficienza” di tutti gli investimenti. Una assunzione a dir poco incauta, che forse giustifica l’esiguità del capitolo, a cui si somma l’assenza di scenari internazionali alternativi: l’Italia è un paese fortemente esposto ai mercati esteri, e sarebbe stato prudente tenerne conto.

La mancanza di valutazioni modellistiche specifiche è uno degli aspetti più critici delle scelte sui trasporti, in particolare ferroviari, che costituiscono una parte rilevante degli investimenti infrastrutturali del Piano. Si tratta di circa 25 miliardi di risorse nel Pnrr, a cui se ne aggiungono improvvisamente e inspiegabilmente almeno altri 10,5 per portare a termine per il progetto più discutibile, quello di una nuova linea AV tra Salerno e Reggio Calabria, parallela a quella esistente. Questa impegnativa aggiunta farebbe supporre una accurata analisi economica del progetto, di cui invece non c’è traccia nel documento presentato (mancano persino le previsioni di domanda!). E ciò, nonostante si tratti di un progetto dal costo totale variabile tra i 22 e i 28 miliardi di euro, interamente a carico dell’erario, che per la parte che eccederà le modeste risorse stanziate nel Pnrr saranno da ripagare interamente a tassi di mercato, di assai incerta grandezza. Non solo, questo determinerà ovviamente una rilevante riduzione degli effetti di moltiplicatore dell’opera, rendendone davvero ardua la giustificazione.

Comunque, il dato di origine modellistica che è stato esplicitato per questi investimenti è quello occupazionale, corrispondente a 68mila unità equivalenti all’anno per 10 anni. Peccato che a livello macroeconomico i modelli specifichino generalmente solo il settore “costruzioni”, che presenta impatti molto differenziati tra grandi e piccole opere, dove queste ultime hanno ricadute sul lavoro molto più favorevoli, e, richiedendo tempi più brevi, generano effetti di “shock” occupazionale meno diluiti di quelle di durata decennale.

Lavoro e grandi opere

Le grandi infrastrutture sono oggi capital-intensive, con un impiego diretto del fattore lavoro che tendenzialmente non supera il 25 per cento del costo totale, e con input di materiali, quali il ferro e il cemento, non certo caratterizzati da alta intensità di lavoro (né, per altro, di molta innovazione tecnologica, trattandosi di settori maturi). Infine, si tratta di occupazione temporanea, al contrario di quanto accade nel manifatturiero.

Ma limitarsi a quei modelli aggregati comporta gravi conseguenze se applicati all’interno dello stesso settore: considerato, come si è detto, che valutano principalmente gli impatti di cantiere, o “a monte”, essi danno risultati identici per infrastrutture utili come per quelle semi deserte.

Quindi appare davvero irrinunciabile “misurare” gli effetti a valle con adeguati (e disponibili) strumenti modellistici, cioè simulare almeno gli impatti più diretti dopo che l’opera entra in esercizio. E qui, per coerenza con le valutazioni “a monte”, occorre fare delle distinzioni molto nette tra gli impatti, in funzione degli obiettivi. L’obiettivo dominante e esplicitamente assunto dall’intero Pnrr è la crescita economica, e per questo obiettivo solo alcuni degli impatti hanno valenze positive, e non sono certo di grande rilievo.

Innanzitutto, per misurare gli impatti “a valle” esiste una tecnica consolidata e diffusa, che è quella dell’analisi costi-benefici. E quali sono i benefici dominanti delle infrastrutture di trasporto? Elenchiamoli in odine dimensionale. Prevalgono nettamente, per le linee di Alta Velocità (o opere simili) i benefici di risparmi di tempo di viaggio per i passeggeri. Per le merci che viaggiano in ferrovia la velocità ha notoriamente scarso peso, tanto che il sistema ferroviario mondiale con i maggiori volumi (e la più solida redditività) è quello statunitense, con velocità commerciali inferiori ai 50kmh.

Poi per le merci esistono risparmi, in caso di pendenze rilevanti, dal passaggio dalla doppia alla semplice trazione, ma, di nuovo, negli Stati Uniti si viaggia serenamente con sei locomotive.

I benefici ambientali non entrano, come tali, nella crescita, e soprattutto sono molto modesti o addirittura negativi per opere con molte gallerie e viadotti e traffici ridotti, come c’è il forte rischio che siano quelli nel Mezzogiorno.

Gli unici benefici per la crescita sarebbero riconducibili ai risparmi di tempo per le categorie manageriali, e, in generale, per chi viaggia per ragioni di lavoro (assai inferiori quelli per recarsi al lavoro). Numeri certo misurabili, ma certo esigui su traffici totali già verosimilmente modesti.

Certo, occorre misurarli, anche per smentire affermazioni fantasiose che per la crescita del Sud questi numeri siano determinanti, come sostiene incautamente una lettera aperta pubblicata ieri su Repubblica di sostenitori dell’AV al sud. E stendiamo un velo finale di silenzio sugli aspetti distributivi, anch’essi misurabili con adeguati modelli: costi pubblici enormi per pochi fortunati che hanno molta fretta.

 

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