La proverbiale volatilità dei mercati dell’energia si è confermata anche in questo periodo così particolare, con l’economia mondiale che cerca di ripartire dopo lo shock della pandemia e con il cambiamento climatico che si fa faticosamente strada nell’agenda dei governi europei.

Dal gennaio scorso i prezzi dell’energia sono esplosi e il loro impatto sui redditi delle famiglie più modeste e sui costi delle imprese suscita preoccupazione; non solo, la fiammata dei prezzi dell’energia contribuisce ad alimentare l’inflazione e con essa il dibattito, pernicioso, sulla politica monetaria

Cosa ha causato un aumento così spettacolare dei prezzi? E cosa si dovrebbe fare per contrastarlo? Si tratta di temi importanti, legati alla transizione ecologica, alla carenza di investimenti nelle energie rinnovabili e alla pace sociale, che sarà messa a dura prova dalla ripartizione di costi e benefici del cambiamento climatico (e delle politiche per mitigarlo).

La tesi “ritardista”

Alcuni, troppi, attribuiscono le tensioni recenti, e più in generale la tendenza alla volatilità dei prezzi dell’energia, alla eccessiva rapidità della transizione ecologica. Le tasse sui prodotti inquinanti (come il carbon pricing o la tassa carbone alle frontiere), la regolamentazione e, non da ultimo, i colossali investimenti necessari per sviluppare capacità produttiva nelle energie rinnovabili, imporrebbero costi eccessivi, in termini di minore occupazione, perdita di potere d’acquisto (soprattutto per le classi medie) e così via; un bagno di sangue, si sono spinti a definirlo alcune personalità in vista nel nostro paese.

E se così fosse, la transizione ecologica dovrebbe essere rallentata, per spalmarne i costi nel tempo ed evitare stress eccessivi del nostro sistema industriale e tensioni sociali insostenibili. In sintesi, si tratta di una lettura “ritardista” a prima vista ineccepibile, ma in realtà fuorviante.

In primo luogo, l’aumento dei prezzi è in parte legato ad elementi contingenti, sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. La domanda di gas in Europa si è impennata a causa di fattori climatici (un inverno particolarmente rigido seguito da un’estate calda) e del rimbalzo dell’economia successivo alla pandemia. Questo mentre parte delle forniture abituali venivano sviate verso i mercati asiatici la cui domanda di gas aumenta anch’essa (in parte per motivi strutturali, come l’utilizzo del gas come fonte di energia transitoria per paesi in uscita dal carbone ma non ancora dotati di sufficiente capacità produttiva nelle energie rinnovabili).

A questo si aggiunga un livello storicamente basso delle scorte e, non da ultimo, il fatto che il mercato dell’energia è fortemente influenzato da fattori geopolitici: molti analisti spiegano le forniture a singhiozzo da parte della Russia con il tentativo di mostrare come il nuovo gasdotto Nord Stream 2 sia necessario per garantire un flusso di gas stabile e duraturo, forzando così l’autorizzazione alla sua messa in servizio da parte dei regolatori europei. Questi fattori sono di natura temporanea e legati specificatamente al mercato del gas, tanto che i mercati si attendono una normalizzazione dei prezzi dopo l’inverno. Per far fronte a questo picco temporaneo quasi tutti i paesi (incluso il nostro) stanno mettendo a punto misure, anch’esse temporanee, per proteggere i più fragili ed esposti all’aumento dei prezzi (per esempio nelle zone rurali). La Spagna ha adottato le misure più aggressive, introducendo un limite di prezzo per il gas, riducendo l’IVA e altre imposte sui prodotti energetici e introducendo una tassa temporanea sugli extra profitti delle società energetiche.

Non solo tensioni temporanee

Tuttavia, l’argomento del bagno di sangue non può essere confutato semplicemente sottolineando il carattere fondamentalmente temporaneo della fiammata recente.

Simone Tagliapietra e Georg Zachmann, del Think Tank Bruegel di Bruxelles, notano come il settore dell’energia sia in preda ad un’incertezza radicale: l’ineluttabilità della transizione ecologica spinge gli operatori a ridurre gli investimenti nelle energie fossili ma allo stesso tempo la timidezza dei governi europei nell’investire nelle rinnovabili crea carenze strutturale di offerta e dipendenza eccessiva da fonti di energia intermedie come il gas.

È quindi vero che la transizione ecologica crea incertezza e tensioni che hanno significativi effetti macroeconomici e sociali.

Accelerare la transizione per ridurre l’incertezza

Tuttavia, la risposta a questa incertezza non è certo il ritardismo, che sembra essere diventato la nuova frontiera del negazionismo climatico, ma al contrario un’accelerazione della transizione, ad esempio con politiche che stimolino gli investimenti (pubblici e privati) di lungo periodo necessari ad aumentare l’offerta di energia pulita (nel 2020 le rinnovabili erano solo il 38% del totale in Europa).

La Commissione nel luglio scorso ha indicato la strada per accelerare nella transizione ecologica proponendo un mix di regolamentazione e incentivi, Fit for 55, che dovrebbe portare nel 2030 ad un taglio delle emissioni del 55% rispetto al 1990, mettendo così l’economia europea in grado di raggiungere la neutralità carbone entro il 2050.

Abbiamo già notato (Domani del 1/8/2021) che a rendere Fit for 55 interessante  è soprattutto il fatto che il pacchetto costituisce una bozza di politica industriale volta a sfruttare il necessario processo di decarbonizzazione per colmare il ritardo (quello sì, foriero prima o poi di un bagno di sangue) che le imprese europee hanno accumulato nelle tecnologie verdi.

La transizione ecologica, dunque, non è da vedersi come un costo ma come un’opportunità, l’ultima forse, per rilanciare crescita e innovazione in Europa. La stessa visione emerge dal World Energy Outlook 2021 pubblicato giovedì dall’International Energy Agency (IEA). In esso si sottolinea come ormai la spinta all’espansione delle tecnologie verdi non venga più dagli incentivi pubblici ma, dove le infrastrutture lo consentono, dalla loro convenienza.

Secondo la IEA, il volume di affari generato dalla traiettoria verso la neutralità carbone per i produttori di turbine eoliche, pannelli solari, batterie agli ioni di litio, elettrolizzatori e celle a combustibile arriverebbe entro il 2050 ad essere superiore a quello attuale dell'industria petrolifera e del suo indotto.

L’obiettivo della neutralità carbone nel 2050 non deve implicare un bagno di sangue. Al contrario, si tratta di un’opportunità per rilanciare la crescita, per stabilizzare i mercati dell’energia e ridurre l’impatto macroeconomico della loro volatilità, per assicurare la sostenibilità sociale e ambientale del nostro modello di sviluppo.

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