Se fosse un film, il titolo sarebbe “La fine della globalizzazione” e il protagonista non potrebbe che essere lui, il microprocessore. Potente, onnipresente, è il motore che fa funzionare tutto il mondo digitale, dall’oggetto più costoso che abbiamo in tasca, lo smartphone, al navigatore e i sistemi di guida della nostra auto, fino agli armamenti più sofisticati.

L’economia ne ha sempre più bisogno: nel 2021 il suo mercato valeva 556 miliardi di dollari con un aumento del 26,2 per cento rispetto al 2020 e si prevede che si espanderà a 803,1 miliardi di dollari nel 2028. Una cascata di microscopici cervelli elettronici per far girare 5G, intelligenza artificiale, internet delle cose, blockchain e naturalmente armi.

Come spiega James Andrew Lewis del Center for strategic ad international studies, un think tank con sede a Washington, «i semiconduttori sono l’industria strategica del XXI secolo. Sono il fondamento del potere economico e militare. Le industrie future si baseranno sulla capacità di usare i semiconduttori e il software per creare nuovi beni e servizi. I microchip sono anche una delle tecnologie più avanzate, che operano al limite della fisica e delle scienze dei materiali, e il frutto di una catena di approvvigionamento complessa e distribuita centrata sul Pacifico».

Un film in tre parti

Il primo capitolo di questa storia di de-globalizzazione parte dalla pandemia di Covid-19 che ha disarticolato le catene di approvvigionamento a causa dei lockdown, dei colli di bottiglia nei trasporti, degli inattesi boom della domanda. Resisi conto della fragilità di questo sistema, Stati Uniti ed Europa ora cercano di riprendere il controllo della fabbricazione dei microchip, che dipende troppo dall’Asia come ha dimostrato la crisi di forniture durante la pandemia.
A Washington l’amministrazione del presidente Joe Biden, sull’onda dei danni che la carenza di semiconduttori sta procurando all’industria dell’auto, ha varato un piano da 52 miliardi di dollari per riportare a casa la produzione di microchip.

La sua azione si muove su due piani: da una parte spingere i gruppi nazionali come Intel a produrre di più in patria, dall’altra influenzare i paesi alleati leader nell’alta tecnologia in Asia orientale, cioè Taiwan e Giappone, affinché aprano fabbriche negli Usa e migliorino i legami con i clienti occidentali. Così la californiana Intel promette di investire 100 miliardi in America. Mentre la Tsmc di Taiwan, leader del settore, si è impegnata a realizzare alcune fabbriche negli Stati Uniti e in Europa. 
Al di là dell’oceano, oltre ad annunciare un piano di investimenti da 50 miliardi di euro, l’Europa sta provando a coinvolgere le società STMicroelectronics (franco-italiana), Nxp (olandese), Infineon (tedesca) e Asml (olandese) per costruire nuovi impianti nel continente e rendersi autonoma nella produzione di semiconduttori.

All’inizio di marzo, STMicroelectronics ha ricevuto un prestito di 600 milioni di euro dalla Banca europea per gli investimenti per sviluppare linee di produzione pilota di semiconduttori avanzati nei suoi siti italiani di Agrate e Catania e in quello francese di Crolles. E anche l’americana Intel, rafforzando i legami transatlantici, ha lanciato un programma di investimenti in Europa da 88 miliardi di dollari in Germania, Francia e Italia.

Intel ha sottolineato che intende creare un ecosistema di chip in Europa e una «catena di approvvigionamento più equilibrata e resiliente». La società americana infatti vorrebbe portare in Europa anche le operazioni di assemblaggio, test e imballaggio che di solito sono realizzate nel sud-est asiatico e in Cina.

Smontare la fabbrica globale

La corsa al microchip home made coinvolge anche l’India, che vuole creare pure lei un’industria dei semiconduttori, mentre François-Philippe Champagne, ministro dell’Innovazione, della scienza e dell’industria del Canada, ha lanciato un fondo “Semiconductor Challenge Callout” di 150 milioni di dollari per potenziare la ricerca e la produzione di microchip.

Ma smontare la fabbrica globale di microchip non è semplice. Il secondo capitolo della nostra storia mostra infatti gli effetti della guerra in Ucraina sull’industria dei chip, evidenziando ulteriori complessità delle catene di approvvigionamento.

L’Ucraina è un importante fornitore di neon, che serve a far funzionare i laser negli impianti di fabbricazione dei semiconduttori. Mentre la Russia è uno dei maggiori produttori mondiali di palladio, usato in alcuni stabilimenti di microchip.

La società di consulenza Techcet stima che la Russia fornisca il 37 per cento dell'offerta mondiale, seconda solo al Sudafrica (40 per cento). Per ora l’impatto immediato della guerra sull’industria europea è modesto, ma la catena di approvvigionamento dei semiconduttori è già molto tesa a causa dell’aumento della domanda di chip e qualsiasi interruzione dell’approvvigionamento può avere un impatto negativo sulla produzione nei prossimi 6-12 mesi.

Fin qui assistiamo ai comprensibili sforzi per portare in America e in Europa l’intero ciclo di produzione di un componente considerato strategico. E alle difficoltà che questo progetto sta incontrando. Ma il terzo capitolo della storia ha un sapore più inquietante e riguarda i rapporti con la Cina. La trama del film scivola nel thriller politico. 

I rapporti con la Cina

I microchip non sono tutti uguali e quelli più avanzati sono al centro di una guerra hi-tech tra Washington e Pechino. Biden ha confermato i limiti imposti dall’amministrazione Trump alle attività della cinese Huawei. Il risultato è che la fornitura di chip avanzati alla Cina è stata bloccata non solo da parte degli Stati Uniti, ma anche altri produttori concorrenti (Samsung e Sk Hynix in Corea del Sud, Tsmc a Taiwan e Toshiba in Giappone) aderiscono al divieto, che impedisce alle fabbriche situate nella Cina continentale di fornire semiconduttori a Huawei.

«L’adozione di nuove tecnologie che richiedono chip avanzati probabilmente prolungherà il conflitto in corso tra Stati Uniti e Cina» ha scritto June Park, analista dell’Elliott School of International Affairs di Washington, in un paper pubblicato dall’Ispi.

«Le tecnologie impiegate nei settori energetico e militare spingeranno la Cina a individuare a tutti i costi l’accesso ai chip avanzati che non è in grado di produrre. Nel frattempo, gli Stati Uniti continueranno a cercare la cooperazione dei loro alleati per consolidare la capacità di produzione di semiconduttori nel loro territorio». In gioco c’è la leadership nelle tecnologie più importanti dell’èra digitale. E gli Usa non vogliono cederla alla. superpotenza rivale.

Il paradosso è che la Cina è il più grande consumatore mondiale di chip, perché è il maggiore assemblatore di prodotti come i telefonini e i computer che vengono poi esportate altrove, ma è dipendente da fonti estere di approvvigionamento: principalmente Stati Uniti, Giappone e Taiwan. Ed è in ritardo di almeno un decennio nello sviluppo di semiconduttori avanzati.

I cinesi vedono tutto questo come una vulnerabilità strategica. Per questo Taiwan fa gola: un’invasione dell’isola da parte della Cina lascerebbe i chip più avanzati del mondo nelle mani di Pechino. L’accademico statunitense Jared McKinney ha recentemente suggerito in una rivista dell’esercito americano che Taiwan dovrebbe proteggersi minacciando di distruggere gli impianti di produzione di chip in caso di attacco, in modo da lasciare i cinesi a mani vuote. L’ha chiamata la strategia del «nido rotto». 

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