L’11 ottobre si è consumato un rituale, l’approvazione a maggioranza assoluta di un nuovo scostamento di bilancio, che ci accompagna, ogni anno, dall’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. La riforma costituzionale approvata nell’aprile 2012 nasce nel contesto della crisi dei debiti sovrani.

In quei mesi nuove direttive europee stabilirono l’obbligo per i paesi di dotarsi di regole di bilancio numeriche che promuovessero effettivamente il rispetto delle regole di bilancio. La risposta italiana andò oltre questa richiesta con una riforma costituzionale che, appunto, introdusse un obbligo di pareggio di bilancio, non contemplato nella normativa europea.

La nuova Costituzione consente di accendere nuovo debito, rispetto al programma di finanza pubblica in vigore, solo al verificarsi di eventi eccezionali, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti. Dal 2014, quando la procedura ha iniziato ad essere applicata, abbiamo una sequenza continua di autorizzazioni parlamentari approvate in occasione del Def di aprile e della Nadef di settembre. Per contare le eccezioni le dita di una mano sono più che sufficienti.

Regole troppo rigide

Ci sono pochi dubbi sul fatto che la riforma costituzionale del 2012 fosse eccessivamente rigida, come fu notato da molti tecnici (tra cui chi scrive) nelle audizioni parlamentari tenute durante l’esame della riforma. Per un esempio, si può osservare come oggi nelle discussioni europee sulle nuove regole fiscali, l’Italia sostenga la necessità di una golden rule che consenta di finanziare in disavanzo gli investimenti, eppure una tale regola sarebbe in contrasto con la nostra Costituzione. Ma una specialità nazionale è quella di dotarsi di regole rigidissime a cuor leggero, assumendo che poi si potrà sempre trovare un modo per renderle più flessibili.

Al di là degli aspetti giuridici, la questione di sostanza non riguarda la discussione sull’austerità ma semplicemente il fatto che un programma di finanza pubblica (anche espansivo) ha senso se guarda a un orizzonte pluriennale e che modifiche in corso d’opera richiedono ragioni fondate. In questa direzione si muove, pur con vari limiti, la proposta della Commissione europea di riforma del fiscal compact, che prevede di basare le nuove regole europee su programmi almeno quadriennali concordati con i singoli paesi.

Veniamo al caso specifico dello scostamento approvato mercoledì (un maggior disavanzo di 0,6 punti di PIL nel 2024 e 2025 e 0,4 punti nel 2026). La valutazione sintetica è che non c’è una giustificazione per lo scostamento. Per cominciare, tra aprile ed oggi non si verificato nessun “evento eccezionale” come una grave recessione economica, una crisi finanziaria o una calamità naturale.

Tuttavia, in passato si è giustificato lo scostamento anche sulla base semplicemente di un peggioramento congiunturale della fase ciclica. Cosa che qui non c’è. Le previsioni macroeconomiche della Nadef non si discostano da quelle del Def in modo rilevante.

Ad esempio, per la variabile più importante per la finanza pubblica, la crescita del Pil nominale, la previsione sull’arco del triennio è identica. Lo stesso vale per l’indicatore della fase ciclica, l’output gap, che resta positivo e in linea con quanto si prevedeva nel Def in tutto il periodo.

Sentiero precario

Secondo il governo, nella sua relazione al Parlamento, l’incertezza di fondo che caratterizza la situazione economica rende necessario intervenire “per ridare slancio all’economia e assicurarle un maggior grado di resilienza”. Il rischio concreto è che lo scostamento peggiori il quadro. Innanzi tutto mette il debito su un sentiero di riduzione molto precario, basato su proiezioni di finanza pubblica irrealistiche per importanti voci di spesa e su un programma di privatizzazioni per nulla definito.

Ogni ulteriore deviazione, non improbabile, sarebbe molto costosa in termini di costo del debito. Poi la questione di come verranno usate le nuove risorse. Serviranno a mitigare le debolezze strutturali dell’economia italiana, cosa che costituirebbe una garanzia di tenuta del rapporto debito/PIL?

La misura principale, quella della fiscalizzazione dei contributi sociali (il cuneo fiscale), non va in questa direzione ma semmai in quella del mantenimento dello status quo, aggiungendo peraltro il peggioramento dello squilibrio futuro del settore pensionistico (se l’obiettivo è la difesa del potere d’acquisto dei salari bassi la strada maestra è intervenire sull’Irpef, magari compensando il fiscal drag).

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