Il primo siluro partito dall’Eurotower è arrivato a Roma ieri, con la lettera della Bce che ha bocciato senza appello la tassa sugli extraprofitti bancari varata dal governo per decreto ad agosto. Quest’oggi però potrebbe andare ancora peggio per Giorgia Meloni, perché l’istituto presieduto da Christine Lagarde è chiamato a decidere se aumentare ancora i tassi d’interesse. Sarebbe il decimo rialzo dal luglio del 2022, nel tentativo, fin qui solo parzialmente riuscito, di frenare un’inflazione che nell’area dell’euro viaggia ancora al ritmo di oltre il 5 per cento annuo.

La stretta sul costo del denaro avrebbe però l’effetto collaterale di raffreddare ulteriormente l’economia dei paesi Ue già in fase di vistoso rallentamento. Non fa eccezione l’Italia, che rischia di chiudere l’anno con un incremento del Pil inferiore all’1 per cento, una previsione confermata anche da un report pubblicato ieri dall’agenzia di rating Fitch, che stima a più 0,9 la crescita italiana nel 2023.

Rischio debito pubblico

È facile prevedere, allora, che se la Bce dovesse decidere per un nuovo rialzo, dai partiti della maggioranza, e non solo, tornerebbero ad alzarsi i toni della polemica contro Francoforte colpevole di sabotare il motore produttivo della nazione. Al momento, va detto, gli analisti sono ancora divisi sui contenuti dell’annuncio di oggi da parte di Lagarde, anche se nelle ultime ore la previsione di un ennesimo ritocco all’insù dei tassi raccoglie maggiori consensi.

Se questi pronostici dovessero rivelarsi azzeccati, l’impatto della decisione della banca centrale si farebbe sentire anche sui rendimenti dei titoli di stato. Il Tesoro, a caccia di risorse supplementari per soddisfare un fabbisogno di cassa ben superiore a quanto preventivato, non potrà fare a meno di allineare al rialzo anche i rendimenti dei titoli di stato che verranno offerti ai risparmiatori.

La spesa per interessi che grava sulle casse dello Stato potrebbe quindi aumentare ancora e del resto, già ieri, l’asta dei Btp ha fatto segnare tassi in netto aumento con il titolo triennale collocato al 3,86 per cento lordo, record dal 2012.

La lettera da Francoforte

Brutte notizie, insomma, per il governo, che già fatica a far quadrare i conti della manovra per il 2024. Il lungo elenco delle incognite nei conti dello stato comprende anche la tassa sugli extraprofitti su cui ieri, come detto, si è espressa anche la Bce con una lettera di sei pagine in risposta alla formale “richiesta di valutazione” inviata dal ministero dell’Economia il 10 agosto all’attenzione di Lagarde.

La bocciatura era in qualche modo attesa, ma i toni della replica giunta ieri da Francoforte non lasciano spazio a dubbi sulla posizione della banca centrale. L’imposta sugli extraprofitti, si legge nella missiva, indebolisce la posizione patrimoniale degli istituti di credito, perché, tra l’altro, li priva di risorse che potrebbero essere destinate ad accantonamenti sui crediti a rischio, che sono destinati ad aumentare in una fase d’incertezza dell’economia come quella che si prospetta nell’immediato futuro.

Effetto retroattivo

Inoltre, fa notare la Bce, l’imposta potrebbe in teoria finire per penalizzare ulteriormente bilanci con redditività calante, visto che la tassa si applica solo sul margine di interesse, che si confronta con altre voci del conto economico (commissioni da servizi, trading finanziario) con prospettive più incerte. Il consiglio che arriva dall’Eurotower è quindi quello di accompagnare il decreto “con un’analisi approfondita delle possibili conseguenze negative per il settore bancario”.

Nella lettera viene messo in evidenza anche l’effetto retroattivo del provvedimento che apre la strada a due rischi. Da una parte è probabile che gli istituti facciano appello ai tribunali per la cancellazione della legge. Dall’altra, si legge, la “natura retroattiva aumenta indebitamente l’incertezza sul quadro fiscale danneggiando la fiducia degli investitori”. In altri termini, di fronte a prospettive incerte, i capitali starebbero alla larga dalle banche italiane.

L’esempio spagnolo

Questi rilievi ricalcano in parte quelli già formulati di recente su provvedimenti simili a quello italiano varati da altri paesi, come la Spagna o la Lituania. Il governo di Madrid nell’autunno scorso ha introdotto un’imposta supplementare che va colpire non solo il margine d’interesse (differenza tra ricavi da prestiti e la remunerazione dei depositi della clientela), ma i profitti operativi derivanti anche dalle commissioni.

Dal prelievo in versione spagnola sono però escluse le banche con proventi complessivi inferiori a 800 milioni di euro. Va detto che in Spagna la tassa extra sui grandi gruppi creditizi è stata alla fine approvata dal Parlamento ed è entrata in vigore nonostante l’opposizione della Bce. La misura verrà applicata per due anni, 2023 e 2024, con un incasso previsto per le casse dello stato pari a circa 1,3 miliardi di euro.

Gettito dimezzato

Seguendo l’esempio spagnolo è possibile che venga introdotta anche in Italia una soglia minima per salvare gli istituti più piccoli, che hanno una redditività maggiormente legata alle attività tradizionali (prestiti e depositi) e quindi sarebbero proporzionalmente più penalizzate rispetto alle concorrenti più grandi e più diversificate come fonti di ricavo.

Se questa o altre modifiche al testo originario (per esempio la deducibilità della nuova imposta ai fini Ires e Irap) venissero approvate in Parlamento durante la conversione in legge del decreto, il gettito del provvedimento sarebbe alla fine molto inferiore rispetto ai 4 miliardi ipotizzati da principio. Si arriverebbe alla metà, forse anche di meno. Un buco in più nei conti della manovra.

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