Tutto è iniziato in un martedì grasso del diciottesimo secolo, quando i giovani della parrocchia di Ognissanti di una città non distante da Nottingham, a metà strada fra Manchester e Birmingham, presero a sfidare quelli della vicina chiesa di San Pietro. Potevano giocare solo giovanotti e uomini di età superiore ai 18 anni e spesso la faccenda sfuggiva di mano. Il sindaco del posto tentò inutilmente di sopprimere l’evento, ripetuto ogni anno fino al 1848, quando furono costretti a chiamare le truppe del regno per vigilare. Del resto il calcio non aveva ancora scritto le sue regole (1863), ma non è mai cambiata da allora l’abitudine di dare il nome di quella città, Derby, nel cuore dell’Inghilterra, alle partite fra squadre dello stesso luogo. In tutto il mondo. Ieri l’Italia ha avuto la brace accesa di Lazio-Roma e la Spagna la sfida tra Siviglia e Betis.

Lisbona è invece tornata con Benfica contro Sporting al tempo in cui il campionato si decideva lungo la linea della Segunda Circular, la strada che unisce l'aeroporto di Portela al centro della capitale. Quelle due squadre sono anime inconciliabili, fino alla seconda metà degli anni Settanta si sono contese l'egemonia in patria e nella vasta diaspora lusitana. Accadeva prima che iniziasse la prepotente ascesa del Porto, che dopo la scalata alla presidenza dell'eterno Jorge Nuno da Lima Pinto da Costa (a capo del club dal 1982, saranno 42 anni il prossimo 17 aprile) si è imposto in patria e soprattutto all'estero come il più europeo fra i grandi club portoghesi. Una vocazione, quella portista per la dimensione continentale, confermata nella stagione in corso.

La squadra guidata da Sergio Conceição guida il girone di Champions a pari punti con uno svagato Barcellona. Non altrettanto bene sta facendo in campionato, ha compiuto qualche passo falso di troppo. La clamorosa sconfitta casalinga rimediata contro l'Estoril ultimo in classifica rischia d’essere la svolta negativa di questa stagione. La Liga portoghese è uno strano animale. In genere si decide nei sei scontri diretti fra le tre grandi, ma si può perdere a causa dei punti lasciati per strada con le piccole. Certe sconfitte, più che presagi, rischiano di essere sentenze.

Lo Sporting ha vinto il campionato nel 2021 dopo vent’anni. Era uscito di scena. Ieri, per una domenica, il tempo è tornato all’epoca in cui il derby era il centro di tutti i mondi possibili visti dal microcosmo di Lisbona: locale, nazionale, globale. La lusosfera divisa in due, un mondo espanso per il globo intero ma raccolto intorno a una frattura che in linea d'aria è lunga nemmeno tre chilometri: la distanza che separa il Da Luz dal José Alvalade, con la Segunda Circular nel mezzo.

Il derby infinito

Lisbona è una città particolare. Una metropoli europea di dimensioni contenute, la capitale di un piccolo paese che è stato un impero sterminato e forse non ha mai perso la nostalgia di esserlo. In quel territorio i club calcistici sono numerosi. C’è il Belenenses, la terza squadra della città che ha anche vinto il campionato nel 1945 (unica a rompere l’oligopolio a tre, unitamente al Boavista nel 2001). C’è l’Atletico Club Portugal, che qualche anno fa fu al centro di una brutta storia di scommesse. Nella cintura metropolitana c’è l’Estrela Amadora, tornata quest’anno in serie A.

Ma gira e rigira il calcio di Lisbona ruota attorno a Benfica e Sporting. La differenza fra i due club è profonda, quasi antropologica. Il Benfica è la squadra del popolo. La più amata dai portoghesi della diaspora, ma anche la squadra delle prime glorie internazionali del calcio lusitano con le due Coppe dei Campioni vinte negli anni Sessanta, assunte dal regime salazarista come un fattore di prestigio per il piccolo paese, respinto fuori dal tempo da una dittatura mediocre e ottusa. Da allora il club non è più arrivato a un successo internazionale. La colpa secondo una celebre leggenda è della maledizione lanciata da Bela Guttmann, l’allenatore ungherese che non prese bene il mancato adeguamento del contratto. Lo Sporting è invece la squadra della borghesia, animata da un'idea pedagogica del calcio e dello sport, anch'essa capace di raggiungere qualche gloria internazionale (la Coppa delle Coppe 1963-64).

Col tempo queste caratterizzazioni sociali si sono annacquate e allo stesso modo si è riequilibrata la forza delle rispettive “cantere”. Passato il tempo in cui l'accademia dello Sporting era prima per distacco in Portogallo (Luis Figo e Cristiano Ronaldo i due nomi più altisonanti), negli anni più recenti quella del Benfica si è segnalata per una straordinaria produzione di talento (da Bernardo Silva a João Cancelo, passando per João Félix). Tutt’e due hanno come simbolo un animale. Quelli del Benfica adorano le aguais, le aquile; e il volo dell'aquila è il rito pre-partita del Da Luz, imitato dalla Lazio di Claudio Lotito. Quelli dello Sporting sono i Leões, i leoni; e il ruggito del re della foresta campeggia ovunque nell'iconografia sportinguista. Invero ci sarebbero anche i soprannomi spregiativi che le due tifoserie si rivolgono reciprocamente. Per i tifosi sportinguisti quelli del Benfica sono lampiões, un soprannome che non ha a che fare coi lampioni ma con Lampião, una figura mitologica di ladro brasiliano degli anni Trenta. Invece per i tifosi benfiquisti quelli dello Sporting sono lagartos e il soprannome fa riferimento alla sottoscrizione che i tifosi sportinguisti effettuarono negli anni Cinquanta per finanziare la costruzione dello stadio José Alvalade.

Ma la disputa più accesa sui nomi è quella che viene condotta dalla comunità sportinguista contro la denominazione “Sporting Lisbona” usata diffusamente fuori dal Portogallo. Una contestazione che si basa su due motivi. Il primo: in Portogallo quello è lo Sporting per eccellenza (lo Sporting Clube de Portugal) e non ha alcuna necessità di vedersi associare a un'appartenenza cittadina, come si trattasse dello Sporting Braga. La seconda: la denominazione “Sporting Lisbona” è troppo vicina a quella del Benfica, che nella formula completa è “Sport Lisboa e Benfica” (SLB).

Presidenti in ombra

A capo delle due società si trovano due presidenti arrivati lì per caso: Frederico Varandas per lo Sporting e Manuel Rui Costa per il Benfica. Varandas è un medico militare che per anni è stato a capo del dipartimento sanitario sportinguista. Si è trovato al posto giusto nel momento giusto: quello della caduta di Bruno De Carvalho, il presidente populista che aveva riacceso le passioni della tifoseria salvo poi rimanere schiacciato dal proprio narcisismo. Nella tifoseria sportinguista il “brunismo” non è mai tramontato completamente, intanto che l'ex presidente si affermava come personaggio pop fino a entrare nella casa del Grande Fratello Vip versione portoghese. Allo stesso modo Varandas continua a non essere amato da gran parte della tifoseria, nonostante che sotto la sua presidenza sia tornata la vittoria in un campionato (2020-21) dopo 19 anni di digiuno.

Il suo rapporto con gli ultras è inesistente, praticamente irrecuperabile. Quanto a Rui Costa, per anni ha lavorato da vice dell’ex presidente Luis Filipe Vieira. Che è stato travolto dagli scandali lasciando un vuoto di potere in cui agevolmente si è inserito l’ex numero 10 di Fiorentina e Milan. In campo è stato una bandiera, come presidente non ha mai dissipato i dubbi sul suo rapporto con Vieira: o sapeva e ha fatto finta di nulla, o dormiva. Nell’un caso o nell’altro non c’è molto da vantarsi. E le pessime prove in Champions (4 sconfitte su 4) hanno incrinato il feeling con la tifoseria. Adesso le due squadre potrebbero ritrovarsi in Europa League, dove lo Sporting è quasi passato nel girone che comprende l’Atalanta. Il derby europeo proietterebbe la gara su un’ulteriore dimensione, che però ruoterebbe sempre intorno a quei tre chilometri in linea d’aria.

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