È bastato un aumento di qualche centesimo al litro spalmato su tre settimane per rilanciare l’allarme sul prezzo della benzina, che in Italia resta la più tassata e una delle più care d’Europa. Il ministro Adolfo Urso si è presentato alla Camera mercoledì vantando l’opera del governo che «è riuscito a contenere» i rincari, «evitando impatti inflattivi».

Un copione non proprio inedito, quello recitato da Urso, che ha fatto ricorso a una consolidata tradizione retorica della classe politica. In sostanza, se il prezzo s’impenna, la colpa è sempre della speculazione, mentre quando gli aumenti non superano il livello di guardia il merito va attribuito all’esecutivo in carica.

Il ministro non ha invece speso neanche una parola a proposito della riforma della rete dei distributori, promessa dal governo ormai due anni fa e fin qui rimasta al palo. Eppure, a detta di analisti e operatori di mercato, le nuove regole favorirebbero innanzitutto i consumatori, contribuendo a una riduzione del prezzo dei carburanti.

Troppi distributori

L’Italia è un caso unico tra i grandi paesi europei per numero di impianti di distribuzione: sono circa 20mila, quasi il doppio rispetto alla Francia (10.900) e molti di più anche in confronto alla Germania (circa 14mila) e alla Spagna (12.346). Un fatto che dovrebbe contribuire ad aumentare la concorrenza, spingendo al ribasso i prezzi.

In realtà succede il contrario, perché in un mercato così frammentato finisce per calare il carburante erogato in media dal singolo benzinaio, che quindi, per garantirsi un margine adeguato di guadagno, non ha certo grandi incentivi a ridurre il prezzo alla pompa. Senza contare che il mercato nostrano è da sempre afflitto da fenomeni di contrabbando ed evasione fiscale in misura molto superiore rispetto al resto del continente.

Tutti problemi non nuovi, a dire il vero, che il governo ha provato a prendere di petto annunciando, già nell’estate del 2023, una riforma del settore. Ad aprile dell’anno scorso Urso ha dato per imminente la presentazione di un disegno di legge ad hoc, che si è in effetti materializzato l’estate successiva.

A stretto giro però è arrivato anche il no di tutte le principali sigle sindacali che rappresentano i gestori. L’accusa, nemmeno troppo velata, è che la proposta governativa fa il gioco dei grandi gruppi petroliferi, Eni in testa, che non vedono l’ora di metter fuori gioco gli operatori più deboli rafforzando il loro dominio sul mercato.

Benzinai contro

«È la peggiore riforma del settore da quando in questo paese sono cominciati i rifornimenti ai veicoli», recitava una nota congiunta dei sindacati dei benzinai diffusa ai primi di settembre. Le proteste si sono concentrate sui contratti per la gestione dei punti vendita che in base al disegno di legge non potrebbero avere durata inferiore a cinque anni con un preavviso di tre mesi per la disdetta. Le sigle sindacali parlarono di «trionfo della precarizzazione», mentre l’Unem, l’associazione che riunisce i petrolieri, apprezzò il «passo avanti» del governo.

Urso fece trapelare l’intenzione di mediare tra le parti per mettere a punto un nuovo testo. A quasi cinque mesi di distanza, però, del disegno di legge si sono perse le tracce. Il ministro, come è successo mercoledì alla Camera, preferisce concentrarsi sulle prospettive dell’idrogeno o del nucleare, tenendosi a rispettosa distanza dallo scontro tra le lobby contrapposte di benzinai e petrolieri.

© Riproduzione riservata