Quando Franco Bernabé, presidente di Acciaierie d’Italia (ex Ilva), dice dal palco del Congresso della Uil: «Non possiamo seguire gli slogan di Greta Thunberg, e fare tutto e subito», l’applauso della platea di delegati sindacali radunati all’hotel Ergife si alza fragoroso, più fragoroso dei numerosi precedenti.

L’ex amministratore delegato di Eni, e molto altro ex, ora presidente dell’ex Ilva, si presenta di fronte al sindacato che a Taranto ha la maggiore rappresentanza, ammettendo di essere a capo di una acciaieria che è stata gestita per dieci anni «da due commercialisti», ha difficoltà ad accedere ai fidi bancari e sta attendendo i soldi del governo - «io non li ho visti», dice deludendo i sindacalisti che chiedevano conto del miliardo stanziato dal governo Draghi appeso ora ai negoziati tra gli azionisti.

Entusiasma, invece, quando smonta le tempistiche degli obiettivi europei sulla transizione ecologica: «ambiziosi» ma anche «deterministici», un approccio «quasi sovietico» e con cui «avremo problemi giganteschi in interi settori industriali». E quindi il prossimo governo, l’esecutivo Meloni, «dovrà rivisitarli», almeno ritardarli.

Il padrone di casa Pierpaolo Bombardieri chiede praticamente l’opposto in un congresso tutto dedicato a una transizione non più rinviabile: «La data fissata dalla Commissione europea per lo stop alla vendita delle auto a benzina e diesel deve essere rispettata, e al contrario di quanto ha cercato di fare il nostro paese, si devono anticipare i tempi con ingenti investimenti salvaguardando e riqualificando l’occupazione».

Il sindacato ha preparato per l’occasione una ricerca corposa realizzata con il centro di ricerca Està che mette in fila le politiche degli altri paesi europei: la Germania che si è data tempistiche anche più stringenti, la Spagna che ha elaborato una «Estrategia de la transition justa», la Francia che di piani per l’automotive ne ha tre. In Italia, di piani per il settore, chiesti e richiesti – almeno agli ultimi tre governi – non ci sono, gli incentivi sono stati realizzati talmente male che persino Davide Mele, senior vice president Corporate Affairs di Stellantis Itali, si permette di ricordare che «le vendite di auto elettriche si sono azzerate».

Di quella ricerca per la sala contano soprattutto i numeri dei posti a rischio: nel settore automobilistico, analizzato comparto per comparto, sono tra il 40-45 per cento, oltre 110 mila lavoratori.

Il 40 per cento dovrà proprio cambiare impiego: più di uno su cinque avrà bisogno di aggiornamento e ricollocamento, il 19 per cento di crearsi un profilo professionale completamente nuovo.

L’Ilva alla ricerca di gas

(AP Photo/Paola Barisani)

La prospettiva a cui guarda la maggioranza dei lavoratori è in quel dimezzamento dell’occupazione, anche se proprio il rapporto presentato ieri spiega che la maggior parte dei posti di lavoro persi è dovuto proprio al mancato aggiornamento tecnologico, a imprese che sono andate in declino.

A questa tensione che percorre la platea, si aggiunge la crisi energetica. Poco prima della tavola rotonda sulla transizione ecologica ha preso la parola il delegato sindacale di Priolo, raffineria del polo petrolchimico di Siracusa: chiuderà forse a dicembre come effetto delle sanzioni alla russa Lukoil ed è solo la crisi più urgente che assilla i telefoni dei sindacalisti.

Le Acciaierie d’Italia di Bernabé stanno sperimentando altri effetti diretti del conflitto. Quando gli si chiede come sono messi in bolletta, spiega che è passata da venti a cento milioni di euro al mese, il management al momento è a tempo pieno impegnato a cercare un nuovo fornitore di gas».

«Al momento,», dice poche ore dopo essersi unito al coro di chi smentisce le rassicurazioni del governo, «stiamo attingendo sistematicamente alle riserve strategiche nazionali». 

Bernabé sostiene che l’obiettivo di riconvertire quel che resta dell’acciaieria di Taranto rimane lo stesso, dieci anni di tempo, ma allo stesso tempo mette in chiaro che complessivamente l’impatto della crisi energetica sulla transizione sarà forte: «L’emergenza sta comprimendo tutti i margini di impresa e con quelli come fai i finanziamenti».

Anche da qui viene il mandato a Meloni: «Chiaro che siamo tutti d’accordo sul processo di transizione, ma c’è tutto il tema a livello europeo, non ce la facciamo per il Fitfor55, è una questione di processi produttivi, i tempi vanno messi in discussione».

Alla premier in pectore che dice di credere ai corpi intermedi, finora più Confindustria che sindacati, e che con la destra si è sempre schierata contro i vincoli ambientali più ristretti europei questa crisi energetica offre l’occasione perfetta: l’argomentazione che rinviare i tempi è nostro interesse nazionale potrebbe essere accolta dagli applausi. Magari anche quelli dei lavoratori abbandonati dai governi precedenti. 

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