Non solo non rubano lavoro, ma lo creano e lo danno. L’imprenditoria straniera in Italia è giovane, dinamica e con una presenza femminile in netta crescita. Mentre quella “locale” arranca e porta a casa percentuali negative. È la fotografia scattata dal Rapporto immigrazione e imprenditoria, un’analisi sull’impatto dell’imprenditorialità immigrata in Italia e in Europa realizzato dal centro ricerche Idos con Cna e presentato a Roma.

Nel nostro paese si concentra un sesto dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi stranieri di tutta l’Unione europea, e le attività gestite sono in aumento, anche in controtendenza con il quadro complessivo.

Tra il 2011 e il 2022, infatti, le imprese gestite da italiani sono diminuite del 5 per cento, quelle condotte da chi viene dall’estero e ha un percorso migratorio alle spalle sono aumentate quasi del 43 per cento (42,7 per cento), portando il dato complessivo a 647.797 entità alla fine del 2022. 

È il 10,8 per cento del totale – nel 2011 era il 7,4 per cento. «È una risposta, quasi una reazione dura a un modello che nel tempo ha schiacciato i lavoratori stranieri sullo scalino più basso del mondo del lavoro», dice il presidente di Idos Luca Di Sciullo, «relegandoli alle mansioni più umili e dequalificate, spesso a un passo dal lavoro in nero».

Non è una sostituzione

Germania, Spagna, Italia e Francia rappresentano insieme oltre il 75 per cento del totale dell’imprenditorialità straniera attiva nell’Ue. Il trend di crescita si conferma «nonostante i periodi di crisi recenti: 2008, 2020 e 2021», spiega Antonio Ricci, vicepresidente Centro Studi e Ricerche Idos e curatore della ricerca. «E ha un ruolo in parte anche di compensazione dell’imprenditoria nazionale in diminuzione». Non è però un gioco a somma zero.

Da un lato infatti la perdita è quella di mestieri e professioni altamente qualificati o di qualità, magari legati al made in Italy. Dall’altro «i nuovi imprenditori che arrivano spesso faticano a vedere realizzate le proprie idee». E quelle straniere sono, sottolinea Luca Di Sciullo, presidente Idos, «spesso imprese fragili, che arrivano a chiudere dopo un solo anno, schiacciate dalla burocrazia».

Il panorama imprenditoriale tra gli immigrati in Italia è fatto principalmente di ditte individuali, che sono quasi i tre quarti di tutte le attività gestite da migranti (480mila, il 74,1 per cento). Ma negli anni si è notato un consolidamento, con un aumento delle società di capitale (119mila, 18,4 per cento). Lungimiranza vorrebbe sostegno. E in effetti la Commissione europea ha all’attivo svariati piani di azione in cui ha invitato negli anni gli stati a dare questo sostegno. I fatti, però, ancora non ci sono.

No, non rubano il lavoro

«Il potenziale di crescita delle imprese con titolare straniero forse per troppo tempo è stato sottovalutato dai decisori pubblici», dice Claudio Cappellini, responsabile ufficio politiche Ue della Cna nazionale. «Oggi la politica, sia nazionale sia europea, è più attenta a far sì che, attraverso il lavoro, cittadini anche stranieri possano esprimersi ed essere parte di un processo di crescita sostenibile».

Anche perché no, non vengono a rubarci il lavoro: lo creano. «E anche questo è un aspetto potenziale fondamentale: un’impresa straniera su tre dà direttamente lavoro a una persona italiana», spiega Ricci a Domani. Le 650mila imprese con titolare straniero danno quindi lavoro a più di 200mila italiani. E poi c’è quello che viene chiamato indotto: «In maniera indiretta hanno poi creato anche la nascita di altre imprese e altri posti di lavoro, per un ordine di grandezza forse tre volte maggiore».

I settori e la distribuzione

I settori principali sono quelli dei servizi, il 70 per cento del totale delle imprese straniere in Italia: in testa il commercio (30 per cento). L’edilizia supera quota 20 per cento, «un grande boom, grazie anche all’arrivo di finanziamenti pubblici», dice Ricci.

L’82 per cento dei titolari di imprese immigrate è di origine non comunitaria. Il Marocco, 63mila persone, è in testa, seguito da Romania (53mila) e Cina (52mila). «Due terzi delle imprese di persone provenienti dal Marocco è di tipo commerciale», dice Ricci, e lo stesso avviene per i cittadini di origine bangladese, al quinto posto per presenza. Romeni e albanesi (circa 50mila), invece sono più dediti all’edilizia.

La distribuzione di queste imprese in Italia «è uno specchio sia della presenza migrante sui territori che della stessa l’imprenditoria italiana», dice il vicepresidente di Idos: i due terzi si concentrano nell’Italia centro settentrionale. Ma queste imprese anche al Sud e nelle piccole comunità, mentre Lombardia e Lazio sono veri e propri “epicentri”, contando rispettivamente 124mila e 81mila realtà.

Gli ostacoli

I principali ostacoli sono gli stessi di tutta l’imprenditoria, ma all’ennesima potenza. «Gli aspetti giuridici, l’approccio con le normative e le regolamentazioni, diverse anche tra i vari stati europei», conclude Antonio Ricci.

E poi soprattutto i muri di carta, le difficoltà legate alla burocrazia: «status giuridico, permesso di soggiorno, visto». Insieme alla questione socio-culturale, a cominciare dall’aspetto linguistico e quella necessità di imparare bene l’italiano anche proprio «per affrontare la burocrazia e avere la meglio sui muri di carta». O per completare la formazione.

L’imprenditoria di origine migrante presenta «degli elementi di dinamismo che, nel ciclo economico che stiamo affrontando, meritano molta attenzione», chiosa Di Sciullo. Le donne immigrate emergono ormai «come una componente significativa e in crescita»: sono il 24,6 per cento del totale.

E poi c’è il dato anagrafico: il 75,8 per cento degli imprenditori immigrati ha meno di 50 anni. Per i colleghi e le colleghe italiane la percentuale scende al 55,4 per cento. Lungimiranza vorrebbe, conclude Ricci, investire “sul capitale umano di queste persone, perché hanno una forte volontà di riuscita”.

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